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•La chiesa di S. Erasmo: itinerario archeologico
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•Bibliografia su Formia nell'età medievale

•Roberto Frecentese: pubblicazioni


Nel sito gli studiosi possono trovare informazioni sulla cittą di Formia in etą medievale, dal raccordo con il tardo antico al termine del basso Medieovo.

I saggi sono condensati dalle pubblicazioni di Roberto Frecentese riportate in calce.

Senza alcuna pretesa di esaustivitą, vengono ripercorsi alcuni tratti della storia formiana.

La bibliografia riporta i contributi pił significativi assieme ad alcuni studi di carattere pił generale, utili come punti di riferimento.


 

La chiesa di S. Erasmo

La chiesa di S. Erasmo nasce sull'area di un cimitero romano collocato extra moenia. Originariamente la comunità cristiana formiana fa capo ad una chiesa domestica, ubicata non lontano dall'acropoli in una delle ville romane disseminate sul declivo, di proprietà di una famiglia benestante convertitasi al Cristianesimo, e ai confini dell'area sacra cimiteriale.
Complessi scavi archeologici hanno permesso il rinvenimento di un sistema di inumazioni sub divo sotto la pianta della chiesa attuale. Alcuni dei sepolcreti sono riferibili a tombe cristiane. Resti di costruzione di una domus si trovano reimpiegati nelle fondazioni della chiesa originaria ad unica navata.
Una tomba a cassa, unica foderata in marmo, unica vuota con mensa sovrastante e con segni di effrazione della lastra di copertura, è inscritta in un martyrium con aula absidata.
Gli studiosi ventilano l'ipotesi che possa trattarsi del sepolcreto del vescovo di Antiochia Erasmo, morto a Formia il 2 giugno del 303, secondo i Martirologi geronimiano e romano.
Il mancato rinvenimento del corpo confermerebbe la narrazione della Passio Sancti Erasmi di Gelasio II nella parte in cui si rammenta la translatio delle ossa del santo in Gaeta a causa delle incursioni saracene.

Cattedrale di Gaeta. Colonna del cero pasquale: s. Erasmo giunge a Formia.


I dati topografici, la tomba posta in un luogo a se stante e sempre rispettata dagli interventi edificatori successivi (contrariamente a quanto accaduto per altre tranciate dalle fondazioni murarie o per ricavare altri sepolcreti a camera), un'epigrafe altomedievale, un' iscrizione graffita a lato della tomba con l'iniziale del nome Erasmo in capitale corsiva a forme primordiali di calibro minuscoleggiante (circa sec. IV) rendono praticabile l'ipotesi dell'identificazione della sepoltura come quella del santo vescovo antiocheno.
A ciò si aggiunga l'ininterrotta tradizione orale che ab immemorabili ha identificato in quel luogo l'altare privilegiato della devozione popolare. Tuttavia si tratta non della prima inumazione ma della tumulazione posteriore all'editto del 313 sulla liberalizzazione dei culti, che spingerà i cristiani alla costruzione di chiese a partire dai martyria.
La prima comunità cristiana a Formia si era formata per la coincidenza di condizioni favorevoli: la presenza di gruppi di Giudei e di Orientali nel porto, dediti al commercio e conoscitori prima di altri delle novità dalla terra di Palestina e più immediatamente disponibili a veicolare la nuova fede similmente a quanto accadeva a Pozzuoli; la felice posizione viaria della città lungo l'Appia in diretta comunicazione con Roma e la Sede Apostolica in un andirivieni di contatti e presenze significative; il suo essere terreno fertile ad ogni apertura nella molteplicità di lingue, fedi ed interessi tipici di ogni porto di mare.
Lo spessore della comunità viene ben rappresentato dalla figura del vescovo formiano Probo, che accoglie dapprima Erasmo ed in seguito si affretta a dare sepoltura alle sue spoglie nella necropoli rinsaldando i cristiani di Formia nella memoria di Erasmo. Secondo la Passio gelasiana s. Probo depone Erasmo nella parte occidentale della città "iuxta amphitheatrum " : sulla tomba ed accanto ad essa si avvia il processo di ampliamento dall'originario martyrium fino a giungere alla chiesa a navata unica, alla cripta semianulare, all'episcopio.
Nella sua crescita l'episcopato formiano si salderà strettamente con la Cattedra romana e parteciperà puntualmente ai concili convocati dai pontefici.
La civitas formiana si scompagina seguendo il destino dei centri importanti dell'Impero romano d'occidente.
Procopio di Cesarea nel De bello gothico si dilunga circa le vicende dell'esercito di Totila, re dei Goti d'oriente, in Campania.
Attestatisi nella città di Minturnae, dopo un'infelice incursioni di pochi di loro a Capua, prontamente respinta dall'esercito bizantino di Giovanni, i Goti nel breve volgere di pochissimo attraversano di continuo l'Appia e tengono in costante apprensione le popolazioni della fascia costiera del Lazio meridionale.
Nelle città, centri di vita solidale, mai come questa volta si percepiva la lontananza, se non addirittura l'assenza, di un'autorità credibile, che tangibilmente aiutasse i centri costieri segnati dalla crudezza degli eventi.
Si era spezzato definitivamente il senso dell'integrità del territorio e si percepiva la soluzione della continuità con il passato.
Tra Terracina e Capua l'Appia paradossalmente favoriva la crisi dei centri urbani. Le città sono legate al destino della regina viarum. Da camminamento dei traffici commerciali e motivo di sviluppo dei centri in età imperiale, diviene nel V-VI secolo elemento che facilita il transito degli eserciti, rendendo insicuri i centri costruiti lungo la strada, utilizzati come luoghi di sosta e di razzia.
Il conflitto greco-gotico si svolgerà drammaticamente, non soltanto per gli orrori che ogni guerra porta con sé, ma anche per il grave sconvolgimento della fisionomia del territorio e delle sue istituzioni.
Neppure la riconquista del presidio gotico di Capua nel 555 da parte dei Bizantini servirà a recuperare quella quiete e pacificazione, grazie alle quali avviare un processo di recupero delle condizioni di autentica vivibilità nelle città.
L'autonomia amministrativa concessa dai Bizantini a Capua, ponendo a guida della città un tribuno, non produrrà benefici al di là del centro campano.
La struttura organizzativa civile della città entra in crisi e l'organizzazione ecclesiastica si pone come elemento di aggregazione cittadina e istituto di supplenza nella gestione dei centri abitati.
Nella più generale crisi dei centri urbani del Mezzogiorno italiano tra V e VI secolo, entro i quali si era attestata la maggior parte degli episcopati meridionali, le diocesi sembrano gli unici nuclei territoriali in grado di svolgere un ruolo positivo di aggregazione.
Esse erano sorte nelle civitates, rispettando le divisioni circoscrizionali romane: ad una civitas generalmente corrispondeva una diocesi. Così le civitates di Terracinae, Fundi, Formiae e Minturnae furono, in seguito, significativi centri episcopali.
Con papa Gelasio I l'antica divisione delle chiese diocesane, stabilita sulla base della struttura civile romana ancora valida fino al V secolo, veniva superata da un nuovo concetto di ecclesialità diocesana: Territorium non facere diocesim.
Violante pone in rilievo che i confini territoriali delle diocesi in questi secoli V e VI sono ben lontani dall'avere assunto una fisionomia precisa. In effetti vige il principio, secondo il quale la diocesi più che un territorio precipuamente fisico deve considerarsi un popolo di fedeli stretto attorno al suo episcopus, partecipe alla liturgia diocesana dei sacramenti fondamentali dell'iniziazione cristiana: il battesimo e la cresima.
Ecco che allora la diocesi per la sua stessa essenza costitutiva interessa meno al fedele sotto il profilo della territorialità. Il problema dei confini tra le diocesi può essere la spia di un minor interesse del vescovo sul territorio, non nel senso che non avesse un potere giurisdizionale su di esso, quanto piuttosto per la centralità della città, nella quale l'episcopus svolgeva la ritualità e la sua funzione.
La questione, tuttavia, non è solo di carattere generale. Controversie circa i limiti diocesani contrapposero al tempo di papa Gelasio I (492-496) gli episcopati di Liternum e Volturnum, poco al di là del Garigliano.
La crisi delle diocesi del Lazio costiero ha, in realtà, origini anteriori alla discesa nel sud dei Longobardi.
Lo storico francese Duchesne riteneva che essa dipendesse essenzialmente dalla occupazione dei Longobardi, dal mancato amalgama e dall'impossibilità di dialogo tra le cattoliche popolazioni latine e i nuovi invasori di stirpe germanica.
Il Fonseca ha mostrato che l'ipotesi del Duchesne, che aveva fortemente condizionato l'interpretazione storica circa i rapporti tra Longobardi e cattolicità, sia sostanzialmente inesatta.
In effetti, ancor prima dell'affacciarsi dei Longobardi, molte sedi vescovili avevano cessato di esistere.
Nella striscia di territorio che va da Fondi a Napoli (e la parallela fascia costiera) si può notare che l'episcopato di Suessa era scomparso prima dell'avvento dei Longobardi e circa un terzo delle diocesi versava in difficoltà.
E' il periodo nel quale lo spopolamento dei centri, la migrazione di intere popolazioni, come a Minturnae, dalla piana costiera alla collina, sembrano eventi piuttosto ordinari.
L'impaludamento dei centri attorno al Garigliano e alla Domiziana era spesso causato dall'impossibilità di far fronte alle opere di manutenzione dei sistemi irrigui e di contenimento delle acque. Il ristagno aveva come effetto l'insalubrità dei centri abitati della piana.
L'illusione di una pacificazione, immaginata come possibile dopo la vittoriosa battaglia dei Bizantini del 553 nei pressi del Vesuvio, sarà spazzata via dalla discesa al sud dei Longobardi.
Ma ancor prima della costituzione del ducato di Benevento nel 576 si era assistito nella Longobardia meridionale all'agonia di un'altra diocesi dal passato illustre: Volturnum, l'odierna Castelvolturno.
La situazione del Lazio costiero meridionale e di parte del territorio campano tra Garigliano e Volturno è, in sintesi, al limitare del VI secolo quanto mai fluida.
La scarna documentazione sul periodo della guerra greco-gotica e sull'arrivo nel sud dei Longobardi non facilita la ricostruzione della serie cronologica dei vescovi sulle antichissime sedi episcopali di Fondi, Formia e Minturno.
Nel 590 avrà termine la diocesi di Minturno, quando papa Gregorio Magno constaterà la rarefazione del suo clero e la contrazione del numero degli abitanti.
La provvista di vescovi sulle cattedre del Lazio costiero meridionale non fu opera facile e sbrigativa.
Gregorio Magno percepiva l'importanza strategica pastorale e politica di queste zone e stabilirà sulle diocesi di Formia e Fondi rispettivamente Bacauda e Agnello, robuste personalità: l'uno (Bacauda) proveniente dai ranghi dei legati pontifici, l'altro (Agnello) chiamato a dirimere importanti e delicate questioni e reggente la diocesi formiana, vacante tra il 597 ed il 598, per la morte di Bacauda.
In questo quadro di riferimento può più agevolmente affrontarsi la questione dell'occupazione da parte dei Longobardi di Formia e delle zone limitrofe.
I Longobardi si affacciarono nell'Italia centro meridionale e dettero vita in alcuni siti a forme di occupazione stabile.
Ma Delogu sostiene che i Longobardi del ducato beneventano non arrivarono a controllare stabilmente il territorio costiero compreso tra i monti Aurunci, il Garigliano ed il mare e che, per contro, furono i Bizantini a preoccuparsi maggiormente della difesa dell'Appia e dei collegamenti tra Roma e Napoli.
La testimonianza di Costantino Porfirogenito nel De administrando imperio è quanto mai utile: tra le città occupate dai Longobardi non solo non figura Formia, ma l'autore esclude che Gaeta sia stata da loro conquistata.
La Merores propende per l'occupazione di Formia, ma non supporta la sua tesi con una documentazione probante. Non va, tuttavia, esclusa un'azione longobarda sulla città formiana, però, essa sarà di durata limitata. D'altra parte, se fosse accaduto il contrario, ciò avrebbe significato per i Bizantini concedere mano libera ai Longobardi, cedendo le comunicazioni lungo l'Appia, dopo averle difese fino ad allora strenuamente.
L'influsso degli istituti giuridici longobardi nel CDC nella produzione documentaria del IX secolo da sola non è sufficiente a giustificarne la stabile permanenza nel Formianum.
Si trattò allora di una occupazione temporanea, forse anche ripetuta, ma mai si ebbe una dominazione di carattere politico-istituzionale continuata.
Quest'ipotesi trova conforto nella lettura della corrispondenza di papa Gregorio Magno. Nell'agosto del 594 il pontefice ordinava al vescovo di Siracusa Massimiano di persuadere, a suo nome, il clero formiano, rifugiatosi nella sua diocesi, dopo essersi allontanato dal proprio vescovo di Formia Bacauda, a ritornare nella città. Quale motivo così grave poteva spingere il clero a lasciare Formia in tutta fretta e quasi certamente via mare?
L'avvicinarsi dei Longobardi a Formia, essendo stata occupata Fondi, poteva essere la causa della frettolosa fuga. Ma l'occupazione di Fondi non dovette comunque durare a lungo se nel novembre del 592 il vescovo della città, Agnello, veniva spostato dalla cattedra fondana a quella terracinese, vacante per la morte del proprio pastore Pietro, mantenendo pure nelle sue mani il governo della diocesi fondana.
Per inciso la vacatio delle sedi vescovili era un evento pressoché normale: vacanti al tempo della stipula della pace con Agilulfo erano le cattedre di Minturno, Fondi, Formia, Cuma per citare le più vicine.
Un altro elemento può contribuire a rendere più chiara la questione della permanenza longobarda a Formia.
Si tratta della formazione delle circoscrizioni o distretti amministrativi denominati gastaldati, posti in essere dopo la creazione del ducato beneventano.
Il Fonseca ha appurato che negli ultimi decenni del VII secolo e agli inizi dell'VIII, in concomitanza con la conversione dei Longobardi, la restaurazione degli assetti circoscrizionali ecclesiastici sembra coincidere in larghissima parte sulle circoscrizioni gastaldali, a conferma dell'orientamento a voler far combaciare distretti politico-amministrativi e distretti ecclesiastici.Di norma nel VII secolo quasi tutti i centri gastaldali erano in origine sedi episcopali, sedi episcopali che erano state dapprima civitates romanae.
Ebbene in questo periodo Formia non compare come centro gastaldale; compare, invece, Capua, caduta nelle mani longobarde tra l'aprile del 593 ed il novembre 594, affidata subito alla giurisdizione di un gastaldo, dipendente dal ducato di Benevento.
E' pure da sottolineare che i Bizantini lungo le coste laziali, come sostenuto dal Manselli, hanno mantenuto guarnigioni nei punti nevralgici.
Formia sembra stretta nella morsa tra Bizantini e Longobardi. Gravita nell'orbita bizantina, subisce la conquista temporanea dei Longobardi; ma, tutto sommato, ai contendenti interessa per motivi strategici piuttosto che come centro propulsore di una circoscrizione territoriale.
Questo stato di cose comporta per il centro costiero una diminuzione complessiva di importanza: sostanzialmente Formia si configura come una città in profonda crisi.
Nella corrispondenza che Gregorio manteneva con gli episcopati d'Italia un certo numero di lettere raggiungono le diocesi di Terracina, Fondi, Formia e di riflesso Minturno. A queste si aggiungano le missive inoltrate a vescovi di altre sedi, il cui contenuto riguarda direttamente o indirettamente gli episcopati del Lazio meridionale costiero.
E' soprattutto con Bacauda, il legato pontificio dal nome di origine gallica, nominato vescovo di Formia, che Gregorio intrattiene uno stretto legame.
Nell'ottobre del 590, dopo aver affidato a Bacauda la trasmissione di una lettera al patriarca di Costantinopoli Giovanni, Gregorio, forse su segnalazione del medesimo Bacauda, allora vescovo di Formia, concede la diocesi di Minturno, stabilendone così la soppressione e decretando l'immediata disponibilità delle risorse a favore dell'episcopio formiano.
Tra il settembre e l'ottobre del 591 a Bacauda e ad Agnello, vescovo di Fondi, viene affidata congiuntamente la questione degli Ebrei di Terracina.
Ancora nell'agosto del 594 il pontefice scrive a Massimiano, vescovo di Siracusa, una missiva perché il clero formiano rientri nella diocesi accanto a Bacauda.
Anche le diocesi di Terracina e Fondi sono oggetto di particolare interesse.
Agnello è ricordato nella sua qualità di vescovo prima di Fondi, poi è elevato al rango di cardinale prete di Terracina a partire dal novembre del 592, a seguito della morte di Pietro pastore della diocesi terracinese e a causa dell'occupazione di Fondi da parte dei Longobardi.
L'alto grado prelatizio raggiunto da Agnello gli permette di ottenere la nomina a visitatore della diocesi di Formia nell'aprile del 597 per la morte di Bacauda ed in attesa dell'elezione del successore.
A Bacauda seguirà Albino, il cui nome appare in una lettera pontificia dell'ottobre del 598.
Questo breve panorama pone subito in evidenza la preoccupazione di Gregorio per la situazione amministrativa e pastorale delle diocesi del Lazio meridionale. A guida delle diocesi vengono designati pastori di spiccata personalità. Ciò fa ritenere che la fluida situazione del litorale formiano dovesse essere ben chiara nella mente del pontefice, al quale certo non sfuggiva la necessità di affidare l'organizzazione di questo territorio ecclesiastico a persone abili nella diplomazia e capaci di conquistare il consenso dei fedeli: si veda l'esempio di Agnello.
Territorio di confine, il sud costiero costringe papa Gregorio a barcamenarsi tra Bizantini e Longobardi per salvaguardare l'integrità territoriale ed economica delle diocesi.
Un ulteriore aspetto che avvicina Gregorio Magno a Formia è l'elemento cultuale e liturgico.
Una particolare forma di nutrimento spirituale del papa Gregorio era la ricerca delle vite dei santi come modelli esemplari di meditazione.
Nel primo libro dei Dialogi si apprende che Gregorio conosce l'esistenza del monastero di S. Magno di Fondi e dei santi fondani Onorato e Libertino, dei quali illustra le virtù cristiane e l'amore per la chiesa.
E' probabile che oltre Fondi abbia avuto memoria di altri santi del Lazio meridionale. E ciò appare verosimile.
Egli, nella menzionata lettera a Bacauda del 590 sull'accorpamento della diocesi minturnese a Formia, afferma che Formia è la cattedra "in qua corpus beati Erasmi martyris requiescit ".
Questa sottolineatura, rinforzata dall'uso del tempo presente, racchiude un messaggio che Gregorio invia ai cristiani delle due diocesi. Conosce il culto di Erasmo, già diffuso ben oltre Formia; sa che lì nel cuore della diocesi formiana, e cioè nella cattedrale, è ancora sepolto il vescovo martire; ricorda l'antichità della diocesi di Formia che è un giusto titolo perché Minturno, altrettanto antica, si fondi con essa.
Nell'ottobre del 598 il pontefice scrive ad alcuni vescovi, perché concedano alcune reliquie dei martiri "sanctuaria beatorum martyrum in diocesis vestrae locis quiescentium", affinché l'exprefetto Gregorio possa edificare una basilica in onore dei santi di quelle diocesi che avessero dato la disponibilità delle reliquie. La breve missiva non è l'estrinsecazione di un desiderio, ma assume un tono perentorio: "et ideo, fratres carissimi, prefati desideriis ex nostra vos praeceptione convenit oboedire ".
La lettera giungerà, tra gli altri, anche al vescovo formiano Albino, successore di Bacauda.
Queste brevi osservazioni sui rapporti tra papa Gregorio e la diocesi di Formia, in una lettura contestuale dei pochi essenziali documenti, pongono in risalto quanto influsso esercitò la sua poliedrica personalità.
Un influsso che ha avuto un corrispettivo nel senso che queste nostre terre di confine non sono state considerate dal papa elementi marginali. In definitiva Gregorio continuò la politica di attenzione per le diocesi costiere limitrofe del Lazio intrapresa dai suoi antecessori; la medesima politica contrassegnerà il pontificato di Onorio I, Gregorio II e Zaccaria, i quali si preoccuperanno delle massae e della loro organizzazione. Formia ed il suo vasto enclave rimarranno sostanzialmente nell'orbita della provincia romana e del ducato di Roma.
Sul finire del VI secolo Formia è crocevia degli interessi delle parti in lotta. La città non ha più un ruolo da poter giuocare e spendere ed è priva di sostanziale autonomia: segue il declino tipico dei centri legati a Roma, declino sopravvenuto con la crisi e caduta dell'Impero romano d'occidente.
Papato e Bizantini hanno una posizione predominante nel Lazio costiero, anche se interrotta a brevi intervalli, anche se resa precaria dalle insinuazioni politico-militari dei Longobardi, ma a costoro mancherà la forza o la volontà politica di acquisire definitivamente il Lazio costiero meridionale, attestandosi, di fatto, oltre il limite naturale del Garigliano.
La diocesi formiana possiederà ancora energie sufficienti, surrogando le magistrature civili nel compito del controllo del territorio e ciò avverrà per la concomitante presenza di robuste personalità sulla cattedra episcopale. Così accadrà con ogni probabilità fino a Adeodato II, che partecipò al Concilio del 680 indetto da papa Agatone.

Chiesa di S. Erasmo. Area cimiteriale: epigrafe di vescovo, contenente il salmo miserere.


Sul finire del VII secolo si determina il crollo dell'esperienza della civitas unitaria e della diocesi formiana. Nella prima metà dell'VIII secolo il territorio formiano costituiva uno dei latifondi della Chiesa romana "articolato in massae e governato da un rector che lo amministrava nell'interesse del papato".
I papi Gregorio II e Zaccaria concedevano in enfiteusi casali e fundi appartenenti ad almeno quattro massae diverse. In particolare papa Zaccaria (741-752) ottenne una massa denominata 'da Formia', che egli organizzò in domusculta.
I confini di tali beni papali, partendo da Formia, giungevano a Minturno e a Scauri e a nord si congiungevano con altri possedimenti pontifici nell'agro di Fondi. L'autorità papale, sia giurisdizionale che politica, si mantenne su questo territorio anche per il IX secolo.
Il vescovato di Formia possedeva anch'esso un patrimonio nella zona occidentale, che inglobava una massa denominata con il nome del santo titolare della Cattedrale formiana.
Delogu sostiene che non è possibile attestare in quali condizioni sopravvivesse la diocesi di Formia, tuttavia l'alternanza dei titoli che i vescovi si attribuiscono e i luoghi, dai quali emettono i loro atti amministrativi e i testamenti, fanno pensare ad una fase di transizione.
La civiltà carolingia si sostituisce a quella longobarda, ma le sorti della civitas non mutano.
La qualità e la quantità dei reperti, rinvenuti durante la campagna di scavi degli anni '70, fa sì che si possa ipotizzare una presenza non solo artistica dei Carolingi, che lasceranno testimonianze significative nella cattedrale di S. Erasmo.
L'ascesa di Gaeta, il castrum costruito con l'impegno di numerosi Formiani e abitanti dell'enclave alla ricerca di stabilità contro la precarietà per le incursioni dal mare e dalla terraferma, accentua il declino dell'antica città.
In breve tempo Gaeta diverrà il nuovo polo civile e religioso, ma farà pur sempre parte del Ducato di Roma o provincia romana almeno fino al 727.
Nel 787 il vescovo formiano Campolo è già attestato nel castro di Gaeta, pur mantenendo il titolo di "episcopus Formianus ".
Nel fortilizio gaetano, eretto in eccellente posizione strategica naturale, si stratificherà la società del futuro ducato e lì si stabilirà il vescovo, seguendo l'esodo forse per rimanere accanto alla maggioranza o forse, più semplicemente, per esperire con maggior sicurezza l'esercizio dell'attività pastorale. Così Giovanni, pur appellandosi episcopus Formianus, emetterà i suoi documenti in Gaeta.
S. Erasmo viene abbandonata dalla corte vescovile: rimangono alcuni sacerdoti che officiano i riti alla ridotta popolazione dell'arce romana, che, poi, si denominerà Castellone.
Quando all'orizzonte appariranno i Saraceni, prima sporadicamente e successivamente in gruppi organizzati, della città romana resta ben poco: Formia é politicamente e strutturalmente morta, già una dépendance di Gaeta.
L'846 o l'856 Formia subisce l'ennesimo attacco, ma di distruzione, in verità, nessun narratore (l'Ostiense, l'Erchemperto, ...) parla, pur avendo costoro descritto con dovizia di particolari tutti gli assalti e i sacrilegi e gli assedi e le sofferenze delle popolazioni sotto il ferro saraceno.
Nei primi decenni del secolo decimosesto si comincia a parlare di una distruzione di Formia da collocare nell'anno 856. A metà circa del secolo XVIII alcuni scrittori riferiscono dell'anno 846, senza, tuttavia, indicare le fonti dalle quali traggono l'informazione, citando talvolta in modo improprio la narrazione dell'Ostiense, riproposta in modo poco fedele rispetto all'originale dal Baronio. Comunque, salvate le reliquie di s. Erasmo e degli altri martiri, trasportate per tempo in Gaeta, il vescovo Ramfo si stabilirà definitivamente nel castrum e dall'867 si farà chiamare costantemente episcopus Cajetanus.
Come Formia diviene sobborgo di Gaeta, così la chiesa di S. Erasmo vive in funzione del nuovo polo episcopale.Di Formia romana non rimane più nulla: gli scribi, i notai e i funzionari, prima e dopo la permanenza musulmana nel territorio del Formianum, la chiameranno civitas solo per un fatto meramente formale.
Non si é a conoscenza dei danni prodotti all'edificio di culto dalla colonia saracena (se di danni si può parlare alla luce delle ricognizioni sugli scavi archeologici), ma é probabile che quantomeno l'incuria abbia degradato le strutture del tempio.Passato il pericolo musulmano dopo la battaglia del Garigliano del 915 e consolidatasi notevolmente Gaeta con il raggiungimento della maturazione piena dell'esperienza ducale, i duchi Docibile II e Giovanni si impegnano a riattivare le strutture utili di Formia, innocua oramai e pertanto utilizzabile quale supporto economico per il maggior espansionismo ducale.
Permettono la riparazione del porto, delle mura ed il rifacimento delle parti crollate o danneggiate della chiesa di S. Erasmo. Nel 934 gli stessi duchi concedono il tempio a Bona e a suo figlio Leone.
Nel 944 il duca Giovanni, morto Docibile II, affida la chiesa al proprio fratello Leone con il patto che Bona ed il figliolo di costei possano continuare a goderne i frutti vita loro natural durante.
In questi decenni S. Erasmo entra nelle mire del monastero
di Montecassino.
I monaci cassinesi pongono termine al'esilio iniziato con la dolorosa esperienza saracena. A metà del X secolo Aligerno riporta i Benedettini all'antico cenobio: con volontà e perseveranza i monaci commissionano la ricostruzione di chiese, villaggi, creano forme di sostegno alle atttività fondiarie, si battono per la reintegra dei vecchi possedimenti utilizzando gli atti originali o ricostruiti, concedono i livelli per le terre.
Provenendo dal cenobio madre, un gruppo di Cassinesi in linea con il progetto aligerniano giungerà, passando per le mulattiere di montagna, presso il colle di S. Maria la Noce. Fonda un piccolo romitorio, fuori dalle mura formiane, così come prescriveva la consuetudine monastica. La piccola chiesa, risalente nella sua veste architettonica al X secolo circa, non é il vero obiettivo dei Benedettini, quanto un punto d'appoggio per ottenere l'antica sede della cattedrale di Formia.Con tenacia riportano la zona alta della civitas romana (Castellone) nella condizione di poter ospitare maggiori nuclei familiari; commissionano il recupero delle rovine, migliorano il sistema delle mura, strutturano la micro società secondo i canoni della signoria feudale. L'acquisizione della chiesa di S. Erasmo non è nè immediata nè scontata.
Nel 1058 Giordano I, principe di Capua, cede la chiesa all'abate di Montecassino Desiderio, ma il Fedele ritiene il documento un falso.
Comunque sia il monastero castellonese acquisisce tra il 1062 ed il 1066 chiese e terre sul versante marino. Ciò coincide con il sogno di Desiderio: quello di aprire per l'abbazia di Montecassino uno sbocco a mare. In questo breve lasso di tempo si consuma il passaggio di S. Erasmo nelle mani dei Cassinesi. Desiderio entra in tutti i principali contratti riguardanti il territorio compreso tra Traetto ed il Garigliano, riuscendo a creare un corridoio tra la riva sinistra (il pantano di Minturno e la terra di Sujo) e la riva destra nei lembi terminali del Sessano, al fine di sfruttare la navigabilità del fiume.
Ma l'iniziale progetto si definisce meglio ed include un punto, di controllo diretto sul territorio, dal quale i monaci potessero in loco tutelare e favorire gli interessi dell'abbazia madre.
Definito "Hominem in saeculo potentem" dal pontefice Gregorio VII (a detta di Guglielmo di Malmesbury), Desiderio, a compimento del suo disegno, fa incidere nel 1066 il portale bronzeo dell'abbazia benedettina con l'elenco di tutti gli enormi possedimenti. Tra le molte chiese spicca pure il nome di S. Erasmo, che evidentemente era da poco passata nelle mani dei Benedettini.
La conferma vien data dalla lettura della carta di donazione di due terre all'abate Marino della chiesa di S. Erasmo "in civitate furmiana iam diruta" e "in ordine coenobiali ordinata".
D'ora innanzi, trainato da quello cassinese, il monastero formiano accelererà la propria crescita. I monaci sono in numero consistente e di nobili origini paiono gli abati chiamati a presiedere. Il ricco Gregorio, figlio di Joanni da la Fur... promette di farsi monaco e nel frattempo cede le proprietà ecclesiastiche in suo possesso.
L'abate castellonese riceve donazioni e la sua persona è circondata di rispetto tanto da entrare ormai in tutte le controversie che possano riguardare le terre del comprensorio.Il privilegio di papa Pasquale II del 1099 sancirà la protezione pontificia sul cenobio formiano; quello di Innocenzo II del 1143 ne conferma i precedenti beni, assegnando l'intero Castellone, liberandolo dalle esazioni vescovili e laicali, concedendo facoltà d'ordinazione dei monaci, d'elezione dell'abate e di ingresso dei vescovi invitati nel cenobio per tenere solenni liturgie e sermoni.
Il Lancellotti sostiene che il possesso del Castellone è una vera e propria signoria spirituale e temporale con conseguenti atti di vassallaggio.
Nel 1075 Goffredo Ridello, conte di Pontecorvo, e nel 1079 Giovanni, comes di Sujo, offrono a Desiderio il monastero formiano per la parte loro spettante: probabilmente non si tratta di una vera cessione quanto piuttosto di una formula di conferma dell'operato dei loro predecessori.
Raggiunto l'acme dell'espansione territoriale e nel momento di maggior rilevanza politica, la famiglia ducale fraziona il Ducato gaetano in piccole entità circoscrizionali affidate ai suoi membri, che si ritireranno in castelli dai quali governare la propria porzione. Il fenomeno dell'incastellamento segna l'inizio della crisi dell'esperienza ducale, crisi che si concreta con il passaggio del titolo ducale nelle mani di Riccardo II dell'Aquila.
Venuto meno il diretto rapporto con il potere centrale, si fanno più pressanti le spinte di autonomia. Gli abati castellonesi sollecitano gli imperatori a prendere il cenobio sotto la loro protezione; la famiglia di Riccardo dell'Aquila si pregia di donare terre e benefici.
La dipendenza cassinese di S. Erasmo riflette in loco la predominanza sull'intera diocesi di Gaeta dell'abbazia di Montecassino.
Per un cinquantennio circa i vescovi apparterranno all'Ordine di s. Benedetto.
Sotto papa Innocenzo II, il monastero castellonese con bolla pontificia del 1143 otterrà autonomia giurisdizionale, ma con Adriano IV nel 1158 e poi con Alessandro III nel 1170 tornerà alla dipendenza diocesana.
I passaggi, però, non compromettono la maggiore espansione dei beni del cenobio: i possedimenti giungono oltre il Garigliano fino a Sessa e Mondragone, includono il versante dei monti che si estendono verso Itri.
Tra i privilegi connessi alla funzione di abate figura il possesso di una corte con giardini denominata volgarmente la corte dell'Abbate, circoscritta nell'area dell'attuale sito della chiesa di S. Teresa di Formia.
L'intervento personale dell'imperatore Federico II spegne gli "appetiti " dei baroni, che avevano puntato le loro mire sul tempio e cenobio.
Tra il XII ed il XIII secolo i beni raggiungono discrete proporzioni per entità e qualità. Il sistema agricolo è variegato e le coltivazioni, pure di varietà pregiate, si sviluppano nelle diverse forme delle cese, delle possessioni, delle tese, dei pastini in modo che la produzione occupi tutti i terreni per dimensioni e localizzazioni. Il sistema irriguo e l'impianto delle chiuse garantiscono il supporto alla produzione. L'industria di trasformazione dei prodotti agricoli si localizza nel lembo di terra tra Mola e Gianola.
La riscossione dei tributi e dei canoni periodici, le donazioni sempre più numerose, la cessione delle campagne in enfiteusi movimentano in positivo le entrate. L'economia é sostanzialmente florida e le attività pubbliche e private paiono passare tra le mani dell'abate, che concede il suo assenso e mostra una discreta capacità imprenditoriale.Il monastero provvede alla miglioria dei beni più lontani (a Mondragone) e sottoscrive patti che prevedono la parziale costruzione di case (da intendersi in realtà stanze) a proprio carico.
Identica preoccupazione é rivolta verso la rete viaria. Strade efficienti ed opportunamente collocate agevolano le comunicazioni e gli spostamenti dei prodotti, cosicché si decide di aprire anche un segmento che congiunga la strada pubblica (l'Appia?) con le falde del monte di Piroli.
L'ingrandimento del cenobio castellonese comporta nuovi contatti con altre comunità civili e religiose. Il clero ordinario sentirà l'influenza dei Benedettini e creerà forme di autotutela dei propri interessi, ma quando i conflitti non sono componibili entra in giuoco la figura del vescovo di Gaeta, al quale le parti si appellano per un giudizio super partes.
Gli abitanti del Castellone firmano una carta di concordia con l'abate il 2 maggio 1339 probabilmente per porre fine al contrasto sulla corrispondenza tra diritti e doveri feudali. Nell'intesa si stabilisce il rituale del vassallaggio. Il Castellonese deve la genuflessione, il bacio della mano; l'abate garantisce il suddito con l'osculum sulla bocca. Ogni alienazione di beni avveniva soltanto "consensu expresso et licentia Abbatis".
Buoni permangono i rapporti con re Roberto, che risponde favorevolmente alla supplica rivoltagli nel 1312 da fra Giacomo, abate del Castellone.
La fedeltà ai reali costa al monastero ed al Castellone: su di essi si scaglia la violenza di Nicolò Caetani, conte di Fondi, per punirli dell'alleanza con la regina Giovanna I, contro la quale aveva mosso guerra tra il 1346 ed il 1347.
Il periodo non é tra i più facili. Appena nel 1341 s'era conclusa la lunga e perniciosa diatriba per l'elezione del nuovo abate.
Suppliche, contestazioni, appelli dei pretendenti giungono sino ad Avignone presso la sede papale per ottenere la conferma papale.
La spunta Giovanni di Gregorio Botulante: sotto il suo abbaziato comincia un lungo periodo di stabilità (1341-1369).
Rinnova le enfiteusi già concesse in passato per attrarre al monastero i contadini onde assicurare certezza di entrate. Favorisce la costruzione di nuovi montani ed organizza un adeguato sistema di molini ad acqua a Mola per ammodernare la rete di trasformazione dei prodotti agricoli.
Sotto l'episcopato di Ruggieri Frezza da Ravello le vendite e la commutazione dei beni portano il consenso congiunto del vescovo e dell'abate.
Nel 1377 i Caetani ristrutturano le difese del Castellone e pongono mano alla viabilità interna, edificando una torre ottagona e torrioni.
L'abate Giovanni nel 1383 viene nominato Collettore delle diocesi vicine dalla Curia romana al fine di frenare le pretese dei "fautori dell'antipapa Clemente VII".
Il tempo guasta i rapporti con gli abitanti del Castellone, oramai possesso dei Caetani, ed affiorano contrasti tra i monaci del cenobio di S. Erasmo. Un infelice episodio spinge papa Martino V ad imporre all'arciprete della Cattedrale di Gaeta la risoluzione della delicata vicenda del priorato della chiesa di S. Nicolò di Spigno, attribuito ad un religioso spacciatosi per monaco del monastero castellonese.
La bolla pontificia rimette in discussione le nomine degli abati con severità e ristabilisce la situazione quo ante.
A Castellone ritorna così il vecchio abate per riportare un po' d'ordine tra i monaci.
L'esosità dei vincoli trascina la popolazione a continue rivalse e la risposta dei Benedettini non si fa attendere.
Scende in campo la regina Giovanna II, che, memore dell'aiuto concesso alla sua ava Giovanna I, fa sì che l'abate Giovanni Gattola entri nel pieno possesso dei diritti usurpati dai Castellonesi.
La lite, però, ha un seguito. L'anno seguente, infatti, di fronte al regio consigliere Goffredo di Gaeta, a ciò espressamente delegato, compaiono i contendenti. Non é dato conoscere l'esito della contesa.
Sono gli anni del censimento ordinato da Alfonso d'Aragona: nel 1459 la popolazione del Castellone ascende a 117 fuochi, vale a dire a circa 585 abitanti, comunque numero al di sotto della realtà considerando il valore fiscale dell'indagine.
L'abate Giovanni Gattola é promosso vescovo di Venafro l'anno 1468 e l'abbazia viene affidata in commenda.
Quattro anni dopo la commenda passa nelle mani del cardinal Giuliano della Rovere, nipote di Sisto IV, e futuro papa con il nome di Giulio II.
Il papa Sisto IV aveva accordato nel 1474 un privilegio.
L'interesse per l'abbazia formiana da parte della Congregazione di Monte Oliveto e l'offerta di una pensione annua di 334 ducati d'oro spingono il cardinale commendatario, vescovo d'Ostia e titolare di S. Pietro in Vincoli, a cedere la badia alla Congregazione olivetana nel 1490.
Papa Innocenzo VIII acconsente con propria bolla; e ugualmente il re Ferdinando con l'interessamento del figlio Alfonso II, duca di Calabria, stila il diploma reale di assenso. E' il 12 dicembre 1491.

Formia. Via A. Rubino: stemma della Congregazione olivetana.


Gli Olivetani prendono possesso materiale l'anno successivo; nel gennaio del 1493 eleggono il loro primo abate: fra Tommaso di Brabanza.
Se le consegne avvengono pacificamente, non altrettanto la presa di possesso dei beni dipendenti dal cenobio di S. Erasmo si compie serenamente.
Sono i sintomi di quegli interminabili conflitti tra Castellonesi, orgogliosi e pronti a svincolarsi dagli obblighi secolari, ed il nuovo Ordine assai contemplativo, restio ad intrecciare un dialogo con la nuova emergente borghesia.Nel 1497 non trovandosi modo di convincere gli abitanti a segnalare e restituire terre, beni e documenti del monastero, i monaci si appellano al papa; ed Alessandro VI interviene con una bolla di scomunica per gli inadempienti.
Gli effetti sono immediati: molti si piegheranno e a chi resiste vengono comminate pene severissime.
Persino al Capitano ed ai Giudici di Gaeta con lettere inibitoriali del delegato di Giulio II (l'ultimo abate commendatario del cenobio) si intima di non molestare più né l'abate né i monaci castellonesi.
Il rispetto per gli Olivetani coinvolge la contessa di Fondi Isabella Colonna, che esenta i religiosi, i loro inservienti e gli animali da soma dal pagamento della scafa per il traghettamento del Garigliano.
I rapporti con il grande cenobio di Monte Oliveto in Napoli sono intensissimi.
La festività del patrono s. Erasmo passa dalle consuete due giornate a quattro.
I buoni contatti con la casata fondana danno ulteriore forza e prestigio agli Olivetani: la contessa Giulia Gonzaga-Colonna invita capitani, giudici e funzionari pubblici ad un particolare rispetto per "l'abito olivetano ".
La Terra del Castellone passa in feudo dal 1497 a Prospero Colonna per concessione del re Federico; dal 1503 é incorporata da Ferdinando il Cattolico alla città di Gaeta.
In questi primi decenni gli Olivetani si preoccupano di rendere più abitabile il monastero, predisponendo un ingresso idoneo, sul nartece del quale, poi, appongono la data dell'adeguamento: il 1508.
I Turchi si presentano al largo del Golfo, sbarcano giungendo sotto Castellone nel 1532 e assaltano abbazia e chiesa. Il rogo si estende a tutti gli edifici e distrugge molti documenti: quando il Lancellotti risiederà meno di un secolo dopo nel monastero al fine di trovare materiale per redigere le sue Historiae, annoterà con amarezza che pochi manoscritti erano stati salvati dal fuoco.
L'abate perugino informa che il cenobio era stato rifatto con ingente spesa ad opera di Teofilo d'Aversa e Placido dell'Aquila e completato nel 1560.
La ricostruzione viene preceduta dall'interessamento di Carlo V, che il 17 giugno 1538 prende tutto il complesso cenobitico sotto la sua protezione.
Primo risultato é il riattamento della cappella di S. Probo addossata su parte del fianco della chiesa di S. Erasmo. A conclusione si pone sul portale d'ingresso principale la dicitura " A.D.1539 ".
Il XVII secolo trascorre in interminabili diatribe tra gli Olivetani ed il vescovo di Gaeta per le giurisdizioni sulle cappelle del Castellone.
In verità i contrasti affondano nel precedente secolo. Già nel 1560 il cappellano e l'ordinario sono deprivati del diritti di possesso della chiesa parrocchiale del Castellone dedicata a S. Maria del Forno.
Nel 1571 è la volta dei detentori dei beni del monastero a dover rendere le terziarie all'abate.
Ed ancora si trascina dinnanzi ai giudici ecclesiastici la controversia sul diritto di giurisdizione spirituale sulla Terra e chiesa del Castellone con tanto di raccolta di un dossier colmo di testimonianze. Papa Clemente VIII con breve decreta nel 1599 l'erezione della chiesa di S. Erasmo a parrocchiale ed il provvedimento, lungi dal risolvere il problema, innesca ulteriori questioni.
Tra il 1601 ed il 1606 vien fuori il dissidio per la tenuta nella ex parrocchiale di S. Maria del Forno del Santissimo Sacramento per i moribondi.
Il contrasto con l'ordinario diocesano diviene più appariscente allorquando i monaci passano alla vie di fatto, non bastando il giudizio pendente dinnanzi alla Sacra Congregazione dei Cardinali per l'interpretazione del S.C.T.
L'abbazia continua a godere dell'esenzione dal pagamento della scafa del Garigliano per volere della principessa degli Stigliano, famiglia che avrà in feudo Castellone nel 1608 per intervento di Filippo il Pio.
Ancora conflitti perniciosi si profilano all'orizzonte: il riconoscimento dei mancati pagamenti per le terziarie sulle carrube, la questione della competenza per l'approvazione della provvista di cappellano per la distribuzione dei sacramenti in Castellone, stante la chiusura notturna della porta di accesso alla Terra, il monitorio perché il vescovo di Gaeta si astenga dal pretendere diritti sul monastero, il dissidio con i preti di S. Maria del Carmine, eretta pochi decenni prima con il concorso dei Castellonesi, sui quindenni maturati.
I monaci mal sopportano le ingerenze nella loro vita comunitaria e si mostrano impermeabili alle trasformazioni della società castellonese. La vicinanza con un rione dai traffici intensi disturba la vocazione originaria degli Olivetani. La contemplazione, dono preziosissimo custodito gelosamente, li rende naturalmente distaccati. Si scolpisce sul nartece dell'ingresso alla clausura l'anatema per chi la viola: è il 1621.
Pur con l'impegno del recupero dei pagamenti, le entrate si contraggono ed allora vengono difesi gli introiti e i possedimenti certi. In questo modo si spiega la vigilanza sulla panizzazione: i forni sono di proprietà dei monaci e chiunque tenti di costruirne uno privato viene raggiunto immediatamente dall'ordine esecutivo di abbattimento.
Nonostante le comprensibili lagnanze, nell'elenco dei monasteri, stilato per dar seguito alla soppressione dei piccoli cenobi voluta da papa Innocenzo X nel 1652, il monastero di S. Erasmo si colloca tra quelli di media grandezza sia per consistenza economica sia per numero di monaci.
Tra la vecchia prefissione del 1625 e la nuova del 1652 il numero dei religiosi a Castellone rimane inalterato: dieci monaci, così suddivisi rispetto al passato: otto sacerdoti e due laici.
A rendere il panorama economico più problematico contribuiscono le perdite causate "dalla moltitudine de Popoli armati nelle revolutioni popolari del Regno di Napoli " con chiara allusione ai moti di Masaniello.
Le altalenanti vicende degli Olivetani, non sempre felici nell'adottare misure comprensibili, nel gestire i rapporti con la popolazione, tuttavia non impediscono di migliorare il tempio e di provvedere gli altari di pregevoli dipinti, alcuni dei quali è possibile ammirare nelle navate dell'odierna chiesa. Mancando in quel tempo una cultura del documento e del reperto storico-archeologico e per le immediate esigenze del culto e delle sepolture a camera, si dava inizio alla ristrutturazione dell'area sottostante la chiesa, compromettendo l'integrità delle murature sovrappostesi nei secoli.
Si sposta, poi, la fiera della festa di s. Erasmo lontano dall'atrio del monastero con nuovi motivi di lagnanza.
Il cenobio si presenta ospitale per i pellegrini e le personalità che volentieri vi soggiornano, tra cui spicca nel 1422 l'ospitalità concessa al re Alfonso I d'Aragona, così come asserisce il Giovio.
Nel lontano 1232 si era fermato Bartolomeo di S. Germano, cappellano papale, inviato a Gaeta per dirimere la lite scoppiata tra l'imperatore Federico II ed i Gaetani.
Il 3 maggio 1727 qui sosterà e riposerà papa Benedetto XIII, prima di ripartire.
Il pontefice Clemente XII conosce il cenobio formiano e con breve del 1737 concede una speciale indulgenza plenaria ai visitatori della chiesa.
Ma il declino dell'antico e potente monastero é oramai nella logica degli eventi.
Il 26 marzo 1777 i monaci commissionano al regio agrimensore Andrea Capobianco la misurazione delle distanze tra il monastero, la chiesa del Carmine e l'abitato di Castellone, misurazione da produrre nella causa contro i preti del Carmine a proposito della frequenza alla messa della parrocchia.
In passato per frenare le pretese dei procuratori della chiesa del Carmine, spalleggiati da parte della popolazione castellonese, che si lamentava dell'impraticabilità della strada per giungere al cenobio, i religiosi avevano aperto una porta alla platea dell'Olmo per facilitare l'ingresso nel giardino del monastero e di lì raggiungere la chiesa per il precetto dell'Epifania.
L'abate richiede alla Santa Sede uno sgravio fiscale per la penuria delle entrate di molto ridotte.
Pochi decenni dopo, l'invasione francese spoglierà gli Olivetani di ogni diritto ed il monastero subirà la soppressione per le leggi eversive.

 

L'Archivio storico della chiesa di S. Erasmo di Formia.

Durante la campagna di scavi archeologici degli anni '70 furono salvati numerosi manoscritti che giacevano in casse nell'assoluto abbandono. L'intelligente opera di salvataggio, archiviazione e catalogo del p. G. Pascoli, redentorista, archivista paleografo, ha consentito la fruibilità di un patrimonio preziosissimo per la storia della chiesa e dell'intera città di Formia.
I documenti cartacei rappresentano per numero e antichità il fondo archivistico più consistente della città, materiale unico per ricostruire alcune vicende storiche formiane tra XVI e XIX secolo.
Il patrimonio archivistico è integrato dalle pubblicazioni dei corpi documentari che contengano documenti relativi alla chiesa di S. Erasmo (Codex Diplomaticus Cajetanus e altri corpi collettanei) e dalle riproduzioni di manoscritti sul cenobio da fondi archivistici italiani pubblici e privati, civili ed ecclesiastici.
Dopo un primo periodo, durante il quale uno studioso aveva smembrato i fondi originari per consentire una maggiore leggibilità secondo criteri ormai abbondantemente superati dalla scienza archivistica, a metà degli anni '80 i manoscritti diventano oggetto di studio sistematico. L'équipe di studi storico-archivistico-archeologici a partire dal 1990 ha provveduto alla sistemazione dell'archivio in un locale idoneo con adeguata attrezzatura per la conservazione e consultazione da parte degli studiosi, il cui accesso è consentito su appuntamento.
L'Archivio storico della chiesa di S. Erasmo contiene la serie dei libri parrocchiali dal 1600 ad oggi, con brevi interruzioni, tra le più antiche della diocesi di Gaeta. Inoltre sono custodite alcune migliaia di carte.
I manoscritti sono classificati e custoditi in apposite cartelle; riguardano: atti notarili di varia entità e natura (enfiteusi, donazioni, permute, testamenti, costituzioni di censi, dotari), lettere, corrispondenza degli abati, riscossioni di varia natura, brevi pontifici, atti processuali.
Il manoscritto più antico risale al 1534, due anni dopo la distruzione del cenobio e del Castellone ad opera dei Turchi, durante la quale, a detta del Lancellotti, andarono perse le carte più antiche.
Nell'archivio si hanno notizie sulla chiesa di S. Erasmo ed il suo monastero, le chiese ad essa soggette per giurisdizione, la chiesa del Carmine, le relazioni con altri cenobi. Vi si trovano atti civili concernenti le località di Castellone, Mola e Gaeta.
Ancora è possibile rintracciare informazioni sul vasto comprensorio esteso da Fondi a Sessa Aurunca e, lungo la fascia montana il versante inferiore del Cassinate.
È stata curata la pubblicazione della Rubrica delle Carte appartenenti al Monastero di S. Erasmo di Castellone di Gaeta (custodita nella Biblioteca comunale 'F. Testa' di Formia), un regesto sotto forma di rubrica, compilata nel 1784 e contenente i documenti dell'abbazia formiana redatti dal 1027 al 1764.

 

La documentazione dell'Archivio storico.

Nel 1973 iniziava il recupero dei manoscritti e dei libri parrocchiali della chiesa di S. Erasmo. Tutta la documentazione è posteriore al Tridentino.
L'Archivio è ordinato come segue:
I- Registri parrocchiali;
II- Confraternite;
III- Fondi estranei (di varia provenienza);
IV- Biblioteca dell'Archivio.
L'ordinamento è stato curato dal p. G. Pascoli.
I registri parrocchiali iniziano con un miscellaneo B (1600-1621), che fa presumere l'esistenza di miscellaneo A, andato perso già nel secolo XIX. I miscellanei raccolgono atti di battesimi, matrimoni, confermazioni, morti. Il miscellaneo A doveva riguardare i periodi dall'approvazione dei decreti del Tridentino al 1599.
Nel 1599 la chiesa di S. Erasmo fu eretta parrocchia.
I registri sono suddivisi secondo le serie: battesimi, matrimoni, morti, confermazioni, promesse matrimoniali, protocolli.
Sono altresì custoditi i registri delle confraternite e associazioni laicali (deliberazioni, amministrazione, contabilità, corrispondenza, pagamenti). Si ricordano la Confraternita della SS.ma Vergine dei Suffragi, detta di S. Probo (fondata nel 1539 ed estintasi nel 1905) con propria cappella; la Pia Associazione delle Figlie di Maria Addolorata (approvata dall'arcivescovo di Gaeta mons. Contieri nel 1886); l'Azione Cattolica sezz. S. Luigi e S. Agnese.
Tra i fondi, per complessivi 2.500 manoscritti, vanno segnalati:
a- Fondo del Carmine;
b- Fondo Cappelle (Sant'Erasmo, SS.mo Rosario);
c- Fondo Forcina (documentazione del parroco d. Antonio Forcina + 1968).
Purtroppo i fondi sono stati smembrati, per cui si è persa la connotazione originaria e le carte sono state suddivise secondo il criterio topico-cronologico. Dal 1990 si è preferito mantenere quest'ordine, tipico di una visione archivistica settecentesca, per evitare ulteriore confusione. Un modo per recuperare i corpi originari è consistito nella creazione di apposite schede con un sistema computerizzato.
Tra i documenti conservati figurano le seguenti tipologie: atti notarili (costituzioni di censi, testamenti, dotari, permute, fidejussioni), corrispondenza degli abati, atti processuali, lettere contabili, ricevute di pagamenti, fedi, obbligazioni, tassazioni, ratei, borderò d'ipoteca.
A parte si è creata una raccolta, ad uso degli studiosi e per compensare le lacune dell'archivio, dei documenti della chiesa e del cenobio dispersi per la penisola con le fotoriproduzioni degli originali conservati negli archivi di Stato, negli archivi delle abbazie, delle biblioteche.
Attualmente è in corso la pubblicazione della trascrizione dei manoscritti del XVI secolo.
Per completare il settore documentario si è creata una biblioteca dell'archivio con le pubblicazioni uscite nel comprensorio di carattere storico, archivistico, archeologico.

 

Il saggio di R. Frecentese sulla chiesa di S. Erasmo è tratto da "Breve cronistoria della chiesa di S.Erasmo, già cattedrale e chiesa abbaziale", in "I documenti dell'abbazia di S. Erasmo a Formia. Rubrica delle Carte appartenenti al monastero di S. Erasmo di Castellone di Gaeta (a cura di R. Frecentese)". Caramanica, Marina di Minturno, 1993, pp. 15-39.

I contributi sull'Archivio storico della chiesa di S. Erasmo di A. P. De Santis (L'Archivio storico della chiesa di S. Erasmo di Formia) e A. Onorato (La documentazione dell'Archivio storico) sono tratti da "Guida storico-archeologica della chiesa di S. Erasmo", a cura dell'Équipe di studi storico-archivistico-archeologici - Formia. Caramanica, Marina di Minturno, 1995, pp.19-21.