La
chiesa di S. Erasmo nasce sull'area di un cimitero romano collocato
extra moenia. Originariamente la comunità cristiana formiana
fa capo ad una chiesa domestica, ubicata non lontano dall'acropoli
in una delle ville romane disseminate sul declivo, di proprietà
di una famiglia benestante convertitasi al Cristianesimo, e ai
confini dell'area sacra cimiteriale.
Complessi scavi archeologici hanno permesso il rinvenimento di
un sistema di inumazioni sub divo sotto la pianta della chiesa
attuale. Alcuni dei sepolcreti sono riferibili a tombe cristiane.
Resti di costruzione di una domus si trovano reimpiegati nelle
fondazioni della chiesa originaria ad unica navata.
Una tomba a cassa, unica foderata in marmo, unica vuota con mensa
sovrastante e con segni di effrazione della lastra di copertura,
è inscritta in un martyrium con aula absidata.
Gli studiosi ventilano l'ipotesi che possa trattarsi del sepolcreto
del vescovo di Antiochia Erasmo, morto a Formia il 2 giugno del
303, secondo i Martirologi geronimiano e romano.
Il mancato rinvenimento del corpo confermerebbe la narrazione
della Passio Sancti Erasmi di Gelasio II nella parte in cui si
rammenta la translatio delle ossa del santo in Gaeta a causa delle
incursioni saracene.
Cattedrale
di Gaeta. Colonna del cero pasquale: s. Erasmo giunge a Formia.
I dati topografici, la tomba posta in un luogo a se stante e sempre
rispettata dagli interventi edificatori successivi (contrariamente
a quanto accaduto per altre tranciate dalle fondazioni murarie
o per ricavare altri sepolcreti a camera), un'epigrafe altomedievale,
un' iscrizione graffita a lato della tomba con l'iniziale del
nome Erasmo in capitale corsiva a forme primordiali di calibro
minuscoleggiante (circa sec. IV) rendono praticabile l'ipotesi
dell'identificazione della sepoltura come quella del santo vescovo
antiocheno.
A ciò si aggiunga l'ininterrotta tradizione orale che ab
immemorabili ha identificato in quel luogo l'altare privilegiato
della devozione popolare. Tuttavia si tratta non della prima inumazione
ma della tumulazione posteriore all'editto del 313 sulla liberalizzazione
dei culti, che spingerà i cristiani alla costruzione di
chiese a partire dai martyria.
La prima comunità cristiana a Formia si era formata per
la coincidenza di condizioni favorevoli: la presenza di gruppi
di Giudei e di Orientali nel porto, dediti al commercio e conoscitori
prima di altri delle novità dalla terra di Palestina e
più immediatamente disponibili a veicolare la nuova fede
similmente a quanto accadeva a Pozzuoli; la felice posizione viaria
della città lungo l'Appia in diretta comunicazione con
Roma e la Sede Apostolica in un andirivieni di contatti e presenze
significative; il suo essere terreno fertile ad ogni apertura
nella molteplicità di lingue, fedi ed interessi tipici
di ogni porto di mare.
Lo spessore della comunità viene ben rappresentato dalla
figura del vescovo formiano Probo, che accoglie dapprima Erasmo
ed in seguito si affretta a dare sepoltura alle sue spoglie nella
necropoli rinsaldando i cristiani di Formia nella memoria di Erasmo.
Secondo la Passio gelasiana s. Probo depone Erasmo nella parte
occidentale della città "iuxta amphitheatrum "
: sulla tomba ed accanto ad essa si avvia il processo di ampliamento
dall'originario martyrium fino a giungere alla chiesa a navata
unica, alla cripta semianulare, all'episcopio.
Nella sua crescita l'episcopato formiano si salderà strettamente
con la Cattedra romana e parteciperà puntualmente ai concili
convocati dai pontefici.
La civitas formiana si scompagina seguendo il destino dei centri
importanti dell'Impero romano d'occidente.
Procopio di Cesarea nel De bello gothico si dilunga circa le vicende
dell'esercito di Totila, re dei Goti d'oriente, in Campania.
Attestatisi nella città di Minturnae, dopo un'infelice
incursioni di pochi di loro a Capua, prontamente respinta dall'esercito
bizantino di Giovanni, i Goti nel breve volgere di pochissimo
attraversano di continuo l'Appia e tengono in costante apprensione
le popolazioni della fascia costiera del Lazio meridionale.
Nelle città, centri di vita solidale, mai come questa volta
si percepiva la lontananza, se non addirittura l'assenza, di un'autorità
credibile, che tangibilmente aiutasse i centri costieri segnati
dalla crudezza degli eventi.
Si era spezzato definitivamente il senso dell'integrità
del territorio e si percepiva la soluzione della continuità
con il passato.
Tra Terracina e Capua l'Appia paradossalmente favoriva la crisi
dei centri urbani. Le città sono legate al destino della
regina viarum. Da camminamento dei traffici commerciali e motivo
di sviluppo dei centri in età imperiale, diviene nel V-VI
secolo elemento che facilita il transito degli eserciti, rendendo
insicuri i centri costruiti lungo la strada, utilizzati come luoghi
di sosta e di razzia.
Il conflitto greco-gotico si svolgerà drammaticamente,
non soltanto per gli orrori che ogni guerra porta con sé,
ma anche per il grave sconvolgimento della fisionomia del territorio
e delle sue istituzioni.
Neppure la riconquista del presidio gotico di Capua nel 555 da
parte dei Bizantini servirà a recuperare quella quiete
e pacificazione, grazie alle quali avviare un processo di recupero
delle condizioni di autentica vivibilità nelle città.
L'autonomia amministrativa concessa dai Bizantini a Capua, ponendo
a guida della città un tribuno, non produrrà benefici
al di là del centro campano.
La struttura organizzativa civile della città entra in
crisi e l'organizzazione ecclesiastica si pone come elemento di
aggregazione cittadina e istituto di supplenza nella gestione
dei centri abitati.
Nella più generale crisi dei centri urbani del Mezzogiorno
italiano tra V e VI secolo, entro i quali si era attestata la
maggior parte degli episcopati meridionali, le diocesi sembrano
gli unici nuclei territoriali in grado di svolgere un ruolo positivo
di aggregazione.
Esse erano sorte nelle civitates, rispettando le divisioni circoscrizionali
romane: ad una civitas generalmente corrispondeva una diocesi.
Così le civitates di Terracinae, Fundi, Formiae e Minturnae
furono, in seguito, significativi centri episcopali.
Con papa Gelasio I l'antica divisione delle chiese diocesane,
stabilita sulla base della struttura civile romana ancora valida
fino al V secolo, veniva superata da un nuovo concetto di ecclesialità
diocesana: Territorium non facere diocesim.
Violante pone in rilievo che i confini territoriali delle diocesi
in questi secoli V e VI sono ben lontani dall'avere assunto una
fisionomia precisa. In effetti vige il principio, secondo il quale
la diocesi più che un territorio precipuamente fisico deve
considerarsi un popolo di fedeli stretto attorno al suo episcopus,
partecipe alla liturgia diocesana dei sacramenti fondamentali
dell'iniziazione cristiana: il battesimo e la cresima.
Ecco che allora la diocesi per la sua stessa essenza costitutiva
interessa meno al fedele sotto il profilo della territorialità.
Il problema dei confini tra le diocesi può essere la spia
di un minor interesse del vescovo sul territorio, non nel senso
che non avesse un potere giurisdizionale su di esso, quanto piuttosto
per la centralità della città, nella quale l'episcopus
svolgeva la ritualità e la sua funzione.
La questione, tuttavia, non è solo di carattere generale.
Controversie circa i limiti diocesani contrapposero al tempo di
papa Gelasio I (492-496) gli episcopati di Liternum e Volturnum,
poco al di là del Garigliano.
La crisi delle diocesi del Lazio costiero ha, in realtà,
origini anteriori alla discesa nel sud dei Longobardi.
Lo storico francese Duchesne riteneva che essa dipendesse essenzialmente
dalla occupazione dei Longobardi, dal mancato amalgama e dall'impossibilità
di dialogo tra le cattoliche popolazioni latine e i nuovi invasori
di stirpe germanica.
Il Fonseca ha mostrato che l'ipotesi del Duchesne, che aveva fortemente
condizionato l'interpretazione storica circa i rapporti tra Longobardi
e cattolicità, sia sostanzialmente inesatta.
In effetti, ancor prima dell'affacciarsi dei Longobardi, molte
sedi vescovili avevano cessato di esistere.
Nella striscia di territorio che va da Fondi a Napoli (e la parallela
fascia costiera) si può notare che l'episcopato di Suessa
era scomparso prima dell'avvento dei Longobardi e circa un terzo
delle diocesi versava in difficoltà.
E' il periodo nel quale lo spopolamento dei centri, la migrazione
di intere popolazioni, come a Minturnae, dalla piana costiera
alla collina, sembrano eventi piuttosto ordinari.
L'impaludamento dei centri attorno al Garigliano e alla Domiziana
era spesso causato dall'impossibilità di far fronte alle
opere di manutenzione dei sistemi irrigui e di contenimento delle
acque. Il ristagno aveva come effetto l'insalubrità dei
centri abitati della piana.
L'illusione di una pacificazione, immaginata come possibile dopo
la vittoriosa battaglia dei Bizantini del 553 nei pressi del Vesuvio,
sarà spazzata via dalla discesa al sud dei Longobardi.
Ma ancor prima della costituzione del ducato di Benevento nel
576 si era assistito nella Longobardia meridionale all'agonia
di un'altra diocesi dal passato illustre: Volturnum, l'odierna
Castelvolturno.
La situazione del Lazio costiero meridionale e di parte del territorio
campano tra Garigliano e Volturno è, in sintesi, al limitare
del VI secolo quanto mai fluida.
La scarna documentazione sul periodo della guerra greco-gotica
e sull'arrivo nel sud dei Longobardi non facilita la ricostruzione
della serie cronologica dei vescovi sulle antichissime sedi episcopali
di Fondi, Formia e Minturno.
Nel 590 avrà termine la diocesi di Minturno, quando papa
Gregorio Magno constaterà la rarefazione del suo clero
e la contrazione del numero degli abitanti.
La provvista di vescovi sulle cattedre del Lazio costiero meridionale
non fu opera facile e sbrigativa.
Gregorio Magno percepiva l'importanza strategica pastorale e politica
di queste zone e stabilirà sulle diocesi di Formia e Fondi
rispettivamente Bacauda e Agnello, robuste personalità:
l'uno (Bacauda) proveniente dai ranghi dei legati pontifici, l'altro
(Agnello) chiamato a dirimere importanti e delicate questioni
e reggente la diocesi formiana, vacante tra il 597 ed il 598,
per la morte di Bacauda.
In questo quadro di riferimento può più agevolmente
affrontarsi la questione dell'occupazione da parte dei Longobardi
di Formia e delle zone limitrofe.
I Longobardi si affacciarono nell'Italia centro meridionale e
dettero vita in alcuni siti a forme di occupazione stabile.
Ma Delogu sostiene che i Longobardi del ducato beneventano non
arrivarono a controllare stabilmente il territorio costiero compreso
tra i monti Aurunci, il Garigliano ed il mare e che, per contro,
furono i Bizantini a preoccuparsi maggiormente della difesa dell'Appia
e dei collegamenti tra Roma e Napoli.
La testimonianza di Costantino Porfirogenito nel De administrando
imperio è quanto mai utile: tra le città occupate
dai Longobardi non solo non figura Formia, ma l'autore esclude
che Gaeta sia stata da loro conquistata.
La Merores propende per l'occupazione di Formia, ma non supporta
la sua tesi con una documentazione probante. Non va, tuttavia,
esclusa un'azione longobarda sulla città formiana, però,
essa sarà di durata limitata. D'altra parte, se fosse accaduto
il contrario, ciò avrebbe significato per i Bizantini concedere
mano libera ai Longobardi, cedendo le comunicazioni lungo l'Appia,
dopo averle difese fino ad allora strenuamente.
L'influsso degli istituti giuridici longobardi nel CDC nella produzione
documentaria del IX secolo da sola non è sufficiente a
giustificarne la stabile permanenza nel Formianum.
Si trattò allora di una occupazione temporanea, forse anche
ripetuta, ma mai si ebbe una dominazione di carattere politico-istituzionale
continuata.
Quest'ipotesi trova conforto nella lettura della corrispondenza
di papa Gregorio Magno. Nell'agosto del 594 il pontefice ordinava
al vescovo di Siracusa Massimiano di persuadere, a suo nome, il
clero formiano, rifugiatosi nella sua diocesi, dopo essersi allontanato
dal proprio vescovo di Formia Bacauda, a ritornare nella città.
Quale motivo così grave poteva spingere il clero a lasciare
Formia in tutta fretta e quasi certamente via mare?
L'avvicinarsi dei Longobardi a Formia, essendo stata occupata
Fondi, poteva essere la causa della frettolosa fuga. Ma l'occupazione
di Fondi non dovette comunque durare a lungo se nel novembre del
592 il vescovo della città, Agnello, veniva spostato dalla
cattedra fondana a quella terracinese, vacante per la morte del
proprio pastore Pietro, mantenendo pure nelle sue mani il governo
della diocesi fondana.
Per inciso la vacatio delle sedi vescovili era un evento pressoché
normale: vacanti al tempo della stipula della pace con Agilulfo
erano le cattedre di Minturno, Fondi, Formia, Cuma per citare
le più vicine.
Un altro elemento può contribuire a rendere più
chiara la questione della permanenza longobarda a Formia.
Si tratta della formazione delle circoscrizioni o distretti amministrativi
denominati gastaldati, posti in essere dopo la creazione del ducato
beneventano.
Il Fonseca ha appurato che negli ultimi decenni del VII secolo
e agli inizi dell'VIII, in concomitanza con la conversione dei
Longobardi, la restaurazione degli assetti circoscrizionali ecclesiastici
sembra coincidere in larghissima parte sulle circoscrizioni gastaldali,
a conferma dell'orientamento a voler far combaciare distretti
politico-amministrativi e distretti ecclesiastici.Di norma nel
VII secolo quasi tutti i centri gastaldali erano in origine sedi
episcopali, sedi episcopali che erano state dapprima civitates
romanae.
Ebbene in questo periodo Formia non compare come centro gastaldale;
compare, invece, Capua, caduta nelle mani longobarde tra l'aprile
del 593 ed il novembre 594, affidata subito alla giurisdizione
di un gastaldo, dipendente dal ducato di Benevento.
E' pure da sottolineare che i Bizantini lungo le coste laziali,
come sostenuto dal Manselli, hanno mantenuto guarnigioni nei punti
nevralgici.
Formia sembra stretta nella morsa tra Bizantini e Longobardi.
Gravita nell'orbita bizantina, subisce la conquista temporanea
dei Longobardi; ma, tutto sommato, ai contendenti interessa per
motivi strategici piuttosto che come centro propulsore di una
circoscrizione territoriale.
Questo stato di cose comporta per il centro costiero una diminuzione
complessiva di importanza: sostanzialmente Formia si configura
come una città in profonda crisi.
Nella corrispondenza che Gregorio manteneva con gli episcopati
d'Italia un certo numero di lettere raggiungono le diocesi di
Terracina, Fondi, Formia e di riflesso Minturno. A queste si aggiungano
le missive inoltrate a vescovi di altre sedi, il cui contenuto
riguarda direttamente o indirettamente gli episcopati del Lazio
meridionale costiero.
E' soprattutto con Bacauda, il legato pontificio dal nome di origine
gallica, nominato vescovo di Formia, che Gregorio intrattiene
uno stretto legame.
Nell'ottobre del 590, dopo aver affidato a Bacauda la trasmissione
di una lettera al patriarca di Costantinopoli Giovanni, Gregorio,
forse su segnalazione del medesimo Bacauda, allora vescovo di
Formia, concede la diocesi di Minturno, stabilendone così
la soppressione e decretando l'immediata disponibilità
delle risorse a favore dell'episcopio formiano.
Tra il settembre e l'ottobre del 591 a Bacauda e ad Agnello, vescovo
di Fondi, viene affidata congiuntamente la questione degli Ebrei
di Terracina.
Ancora nell'agosto del 594 il pontefice scrive a Massimiano, vescovo
di Siracusa, una missiva perché il clero formiano rientri
nella diocesi accanto a Bacauda.
Anche le diocesi di Terracina e Fondi sono oggetto di particolare
interesse.
Agnello è ricordato nella sua qualità di vescovo
prima di Fondi, poi è elevato al rango di cardinale prete
di Terracina a partire dal novembre del 592, a seguito della morte
di Pietro pastore della diocesi terracinese e a causa dell'occupazione
di Fondi da parte dei Longobardi.
L'alto grado prelatizio raggiunto da Agnello gli permette di ottenere
la nomina a visitatore della diocesi di Formia nell'aprile del
597 per la morte di Bacauda ed in attesa dell'elezione del successore.
A Bacauda seguirà Albino, il cui nome appare in una lettera
pontificia dell'ottobre del 598.
Questo breve panorama pone subito in evidenza la preoccupazione
di Gregorio per la situazione amministrativa e pastorale delle
diocesi del Lazio meridionale. A guida delle diocesi vengono designati
pastori di spiccata personalità. Ciò fa ritenere
che la fluida situazione del litorale formiano dovesse essere
ben chiara nella mente del pontefice, al quale certo non sfuggiva
la necessità di affidare l'organizzazione di questo territorio
ecclesiastico a persone abili nella diplomazia e capaci di conquistare
il consenso dei fedeli: si veda l'esempio di Agnello.
Territorio di confine, il sud costiero costringe papa Gregorio
a barcamenarsi tra Bizantini e Longobardi per salvaguardare l'integrità
territoriale ed economica delle diocesi.
Un ulteriore aspetto che avvicina Gregorio Magno a Formia è
l'elemento cultuale e liturgico.
Una particolare forma di nutrimento spirituale del papa Gregorio
era la ricerca delle vite dei santi come modelli esemplari di
meditazione.
Nel primo libro dei Dialogi si apprende che Gregorio conosce l'esistenza
del monastero di S. Magno di Fondi e dei santi fondani Onorato
e Libertino, dei quali illustra le virtù cristiane e l'amore
per la chiesa.
E' probabile che oltre Fondi abbia avuto memoria di altri santi
del Lazio meridionale. E ciò appare verosimile.
Egli, nella menzionata lettera a Bacauda del 590 sull'accorpamento
della diocesi minturnese a Formia, afferma che Formia è
la cattedra "in qua corpus beati Erasmi martyris requiescit
".
Questa sottolineatura, rinforzata dall'uso del tempo presente,
racchiude un messaggio che Gregorio invia ai cristiani delle due
diocesi. Conosce il culto di Erasmo, già diffuso ben oltre
Formia; sa che lì nel cuore della diocesi formiana, e cioè
nella cattedrale, è ancora sepolto il vescovo martire;
ricorda l'antichità della diocesi di Formia che è
un giusto titolo perché Minturno, altrettanto antica, si
fondi con essa.
Nell'ottobre del 598 il pontefice scrive ad alcuni vescovi, perché
concedano alcune reliquie dei martiri "sanctuaria beatorum
martyrum in diocesis vestrae locis quiescentium", affinché
l'exprefetto Gregorio possa edificare una basilica in onore dei
santi di quelle diocesi che avessero dato la disponibilità
delle reliquie. La breve missiva non è l'estrinsecazione
di un desiderio, ma assume un tono perentorio: "et ideo,
fratres carissimi, prefati desideriis ex nostra vos praeceptione
convenit oboedire ".
La lettera giungerà, tra gli altri, anche al vescovo formiano
Albino, successore di Bacauda.
Queste brevi osservazioni sui rapporti tra papa Gregorio e la
diocesi di Formia, in una lettura contestuale dei pochi essenziali
documenti, pongono in risalto quanto influsso esercitò
la sua poliedrica personalità.
Un influsso che ha avuto un corrispettivo nel senso che queste
nostre terre di confine non sono state considerate dal papa elementi
marginali. In definitiva Gregorio continuò la politica
di attenzione per le diocesi costiere limitrofe del Lazio intrapresa
dai suoi antecessori; la medesima politica contrassegnerà
il pontificato di Onorio I, Gregorio II e Zaccaria, i quali si
preoccuperanno delle massae e della loro organizzazione. Formia
ed il suo vasto enclave rimarranno sostanzialmente nell'orbita
della provincia romana e del ducato di Roma.
Sul finire del VI secolo Formia è crocevia degli interessi
delle parti in lotta. La città non ha più un ruolo
da poter giuocare e spendere ed è priva di sostanziale
autonomia: segue il declino tipico dei centri legati a Roma, declino
sopravvenuto con la crisi e caduta dell'Impero romano d'occidente.
Papato e Bizantini hanno una posizione predominante nel Lazio
costiero, anche se interrotta a brevi intervalli, anche se resa
precaria dalle insinuazioni politico-militari dei Longobardi,
ma a costoro mancherà la forza o la volontà politica
di acquisire definitivamente il Lazio costiero meridionale, attestandosi,
di fatto, oltre il limite naturale del Garigliano.
La diocesi formiana possiederà ancora energie sufficienti,
surrogando le magistrature civili nel compito del controllo del
territorio e ciò avverrà per la concomitante presenza
di robuste personalità sulla cattedra episcopale. Così
accadrà con ogni probabilità fino a Adeodato II,
che partecipò al Concilio del 680 indetto da papa Agatone.
Chiesa
di S. Erasmo. Area cimiteriale: epigrafe di vescovo, contenente
il salmo miserere.
Sul finire del VII secolo si determina il crollo dell'esperienza
della civitas unitaria e della diocesi formiana. Nella prima metà
dell'VIII secolo il territorio formiano costituiva uno dei latifondi
della Chiesa romana "articolato in massae e governato da
un rector che lo amministrava nell'interesse del papato".
I papi Gregorio II e Zaccaria concedevano in enfiteusi casali
e fundi appartenenti ad almeno quattro massae diverse. In particolare
papa Zaccaria (741-752) ottenne una massa denominata 'da Formia',
che egli organizzò in domusculta.
I confini di tali beni papali, partendo da Formia, giungevano
a Minturno e a Scauri e a nord si congiungevano con altri possedimenti
pontifici nell'agro di Fondi. L'autorità papale, sia giurisdizionale
che politica, si mantenne su questo territorio anche per il IX
secolo.
Il vescovato di Formia possedeva anch'esso un patrimonio nella
zona occidentale, che inglobava una massa denominata con il nome
del santo titolare della Cattedrale formiana.
Delogu sostiene che non è possibile attestare in quali
condizioni sopravvivesse la diocesi di Formia, tuttavia l'alternanza
dei titoli che i vescovi si attribuiscono e i luoghi, dai quali
emettono i loro atti amministrativi e i testamenti, fanno pensare
ad una fase di transizione.
La civiltà carolingia si sostituisce a quella longobarda,
ma le sorti della civitas non mutano.
La qualità e la quantità dei reperti, rinvenuti
durante la campagna di scavi degli anni '70, fa sì che
si possa ipotizzare una presenza non solo artistica dei Carolingi,
che lasceranno testimonianze significative nella cattedrale di
S. Erasmo.
L'ascesa di Gaeta, il castrum costruito con l'impegno di numerosi
Formiani e abitanti dell'enclave alla ricerca di stabilità
contro la precarietà per le incursioni dal mare e dalla
terraferma, accentua il declino dell'antica città.
In breve tempo Gaeta diverrà il nuovo polo civile e religioso,
ma farà pur sempre parte del Ducato di Roma o provincia
romana almeno fino al 727.
Nel 787 il vescovo formiano Campolo è già attestato
nel castro di Gaeta, pur mantenendo il titolo di "episcopus
Formianus ".
Nel fortilizio gaetano, eretto in eccellente posizione strategica
naturale, si stratificherà la società del futuro
ducato e lì si stabilirà il vescovo, seguendo l'esodo
forse per rimanere accanto alla maggioranza o forse, più
semplicemente, per esperire con maggior sicurezza l'esercizio
dell'attività pastorale. Così Giovanni, pur appellandosi
episcopus Formianus, emetterà i suoi documenti in Gaeta.
S. Erasmo viene abbandonata dalla corte vescovile: rimangono alcuni
sacerdoti che officiano i riti alla ridotta popolazione dell'arce
romana, che, poi, si denominerà Castellone.
Quando all'orizzonte appariranno i Saraceni, prima sporadicamente
e successivamente in gruppi organizzati, della città romana
resta ben poco: Formia é politicamente e strutturalmente
morta, già una dépendance di Gaeta.
L'846 o l'856 Formia subisce l'ennesimo attacco, ma di distruzione,
in verità, nessun narratore (l'Ostiense, l'Erchemperto,
...) parla, pur avendo costoro descritto con dovizia di particolari
tutti gli assalti e i sacrilegi e gli assedi e le sofferenze delle
popolazioni sotto il ferro saraceno.
Nei primi decenni del secolo decimosesto si comincia a parlare
di una distruzione di Formia da collocare nell'anno 856. A metà
circa del secolo XVIII alcuni scrittori riferiscono dell'anno
846, senza, tuttavia, indicare le fonti dalle quali traggono l'informazione,
citando talvolta in modo improprio la narrazione dell'Ostiense,
riproposta in modo poco fedele rispetto all'originale dal Baronio.
Comunque, salvate le reliquie di s. Erasmo e degli altri martiri,
trasportate per tempo in Gaeta, il vescovo Ramfo si stabilirà
definitivamente nel castrum e dall'867 si farà chiamare
costantemente episcopus Cajetanus.
Come Formia diviene sobborgo di Gaeta, così la chiesa di
S. Erasmo vive in funzione del nuovo polo episcopale.Di Formia
romana non rimane più nulla: gli scribi, i notai e i funzionari,
prima e dopo la permanenza musulmana nel territorio del Formianum,
la chiameranno civitas solo per un fatto meramente formale.
Non si é a conoscenza dei danni prodotti all'edificio di
culto dalla colonia saracena (se di danni si può parlare
alla luce delle ricognizioni sugli scavi archeologici), ma é
probabile che quantomeno l'incuria abbia degradato le strutture
del tempio.Passato il pericolo musulmano dopo la battaglia del
Garigliano del 915 e consolidatasi notevolmente Gaeta con il raggiungimento
della maturazione piena dell'esperienza ducale, i duchi Docibile
II e Giovanni si impegnano a riattivare le strutture utili di
Formia, innocua oramai e pertanto utilizzabile quale supporto
economico per il maggior espansionismo ducale.
Permettono la riparazione del porto, delle mura ed il rifacimento
delle parti crollate o danneggiate della chiesa di S. Erasmo.
Nel 934 gli stessi duchi concedono il tempio a Bona e a suo figlio
Leone.
Nel 944 il duca Giovanni, morto Docibile II, affida la chiesa
al proprio fratello Leone con il patto che Bona ed il figliolo
di costei possano continuare a goderne i frutti vita loro natural
durante.
In questi decenni S. Erasmo entra nelle mire del monastero
di Montecassino.
I monaci cassinesi pongono termine al'esilio iniziato con la dolorosa
esperienza saracena. A metà del X secolo Aligerno riporta
i Benedettini all'antico cenobio: con volontà e perseveranza
i monaci commissionano la ricostruzione di chiese, villaggi, creano
forme di sostegno alle atttività fondiarie, si battono
per la reintegra dei vecchi possedimenti utilizzando gli atti
originali o ricostruiti, concedono i livelli per le terre.
Provenendo dal cenobio madre, un gruppo di Cassinesi in linea
con il progetto aligerniano giungerà, passando per le mulattiere
di montagna, presso il colle di S. Maria la Noce. Fonda un piccolo
romitorio, fuori dalle mura formiane, così come prescriveva
la consuetudine monastica. La piccola chiesa, risalente nella
sua veste architettonica al X secolo circa, non é il vero
obiettivo dei Benedettini, quanto un punto d'appoggio per ottenere
l'antica sede della cattedrale di Formia.Con tenacia riportano
la zona alta della civitas romana (Castellone) nella condizione
di poter ospitare maggiori nuclei familiari; commissionano il
recupero delle rovine, migliorano il sistema delle mura, strutturano
la micro società secondo i canoni della signoria feudale.
L'acquisizione della chiesa di S. Erasmo non è nè
immediata nè scontata.
Nel 1058 Giordano I, principe di Capua, cede la chiesa all'abate
di Montecassino Desiderio, ma il Fedele ritiene il documento un
falso.
Comunque sia il monastero castellonese acquisisce tra il 1062
ed il 1066 chiese e terre sul versante marino. Ciò coincide
con il sogno di Desiderio: quello di aprire per l'abbazia di Montecassino
uno sbocco a mare. In questo breve lasso di tempo si consuma il
passaggio di S. Erasmo nelle mani dei Cassinesi. Desiderio entra
in tutti i principali contratti riguardanti il territorio compreso
tra Traetto ed il Garigliano, riuscendo a creare un corridoio
tra la riva sinistra (il pantano di Minturno e la terra di Sujo)
e la riva destra nei lembi terminali del Sessano, al fine di sfruttare
la navigabilità del fiume.
Ma l'iniziale progetto si definisce meglio ed include un punto,
di controllo diretto sul territorio, dal quale i monaci potessero
in loco tutelare e favorire gli interessi dell'abbazia madre.
Definito "Hominem in saeculo potentem" dal pontefice
Gregorio VII (a detta di Guglielmo di Malmesbury), Desiderio,
a compimento del suo disegno, fa incidere nel 1066 il portale
bronzeo dell'abbazia benedettina con l'elenco di tutti gli enormi
possedimenti. Tra le molte chiese spicca pure il nome di S. Erasmo,
che evidentemente era da poco passata nelle mani dei Benedettini.
La conferma vien data dalla lettura della carta di donazione di
due terre all'abate Marino della chiesa di S. Erasmo "in
civitate furmiana iam diruta" e "in ordine coenobiali
ordinata".
D'ora innanzi, trainato da quello cassinese, il monastero formiano
accelererà la propria crescita. I monaci sono in numero
consistente e di nobili origini paiono gli abati chiamati a presiedere.
Il ricco Gregorio, figlio di Joanni da la Fur... promette di farsi
monaco e nel frattempo cede le proprietà ecclesiastiche
in suo possesso.
L'abate castellonese riceve donazioni e la sua persona è
circondata di rispetto tanto da entrare ormai in tutte le controversie
che possano riguardare le terre del comprensorio.Il privilegio
di papa Pasquale II del 1099 sancirà la protezione pontificia
sul cenobio formiano; quello di Innocenzo II del 1143 ne conferma
i precedenti beni, assegnando l'intero Castellone, liberandolo
dalle esazioni vescovili e laicali, concedendo facoltà
d'ordinazione dei monaci, d'elezione dell'abate e di ingresso
dei vescovi invitati nel cenobio per tenere solenni liturgie e
sermoni.
Il Lancellotti sostiene che il possesso del Castellone è
una vera e propria signoria spirituale e temporale con conseguenti
atti di vassallaggio.
Nel 1075 Goffredo Ridello, conte di Pontecorvo, e nel 1079 Giovanni,
comes di Sujo, offrono a Desiderio il monastero formiano per la
parte loro spettante: probabilmente non si tratta di una vera
cessione quanto piuttosto di una formula di conferma dell'operato
dei loro predecessori.
Raggiunto l'acme dell'espansione territoriale e nel momento di
maggior rilevanza politica, la famiglia ducale fraziona il Ducato
gaetano in piccole entità circoscrizionali affidate ai
suoi membri, che si ritireranno in castelli dai quali governare
la propria porzione. Il fenomeno dell'incastellamento segna l'inizio
della crisi dell'esperienza ducale, crisi che si concreta con
il passaggio del titolo ducale nelle mani di Riccardo II dell'Aquila.
Venuto meno il diretto rapporto con il potere centrale, si fanno
più pressanti le spinte di autonomia. Gli abati castellonesi
sollecitano gli imperatori a prendere il cenobio sotto la loro
protezione; la famiglia di Riccardo dell'Aquila si pregia di donare
terre e benefici.
La dipendenza cassinese di S. Erasmo riflette in loco la predominanza
sull'intera diocesi di Gaeta dell'abbazia di Montecassino.
Per un cinquantennio circa i vescovi apparterranno all'Ordine
di s. Benedetto.
Sotto papa Innocenzo II, il monastero castellonese con bolla pontificia
del 1143 otterrà autonomia giurisdizionale, ma con Adriano
IV nel 1158 e poi con Alessandro III nel 1170 tornerà alla
dipendenza diocesana.
I passaggi, però, non compromettono la maggiore espansione
dei beni del cenobio: i possedimenti giungono oltre il Garigliano
fino a Sessa e Mondragone, includono il versante dei monti che
si estendono verso Itri.
Tra i privilegi connessi alla funzione di abate figura il possesso
di una corte con giardini denominata volgarmente la corte dell'Abbate,
circoscritta nell'area dell'attuale sito della chiesa di S. Teresa
di Formia.
L'intervento personale dell'imperatore Federico II spegne gli
"appetiti " dei baroni, che avevano puntato le loro
mire sul tempio e cenobio.
Tra il XII ed il XIII secolo i beni raggiungono discrete proporzioni
per entità e qualità. Il sistema agricolo è
variegato e le coltivazioni, pure di varietà pregiate,
si sviluppano nelle diverse forme delle cese, delle possessioni,
delle tese, dei pastini in modo che la produzione occupi tutti
i terreni per dimensioni e localizzazioni. Il sistema irriguo
e l'impianto delle chiuse garantiscono il supporto alla produzione.
L'industria di trasformazione dei prodotti agricoli si localizza
nel lembo di terra tra Mola e Gianola.
La riscossione dei tributi e dei canoni periodici, le donazioni
sempre più numerose, la cessione delle campagne in enfiteusi
movimentano in positivo le entrate. L'economia é sostanzialmente
florida e le attività pubbliche e private paiono passare
tra le mani dell'abate, che concede il suo assenso e mostra una
discreta capacità imprenditoriale.Il monastero provvede
alla miglioria dei beni più lontani (a Mondragone) e sottoscrive
patti che prevedono la parziale costruzione di case (da intendersi
in realtà stanze) a proprio carico.
Identica preoccupazione é rivolta verso la rete viaria.
Strade efficienti ed opportunamente collocate agevolano le comunicazioni
e gli spostamenti dei prodotti, cosicché si decide di aprire
anche un segmento che congiunga la strada pubblica (l'Appia?)
con le falde del monte di Piroli.
L'ingrandimento del cenobio castellonese comporta nuovi contatti
con altre comunità civili e religiose. Il clero ordinario
sentirà l'influenza dei Benedettini e creerà forme
di autotutela dei propri interessi, ma quando i conflitti non
sono componibili entra in giuoco la figura del vescovo di Gaeta,
al quale le parti si appellano per un giudizio super partes.
Gli abitanti del Castellone firmano una carta di concordia con
l'abate il 2 maggio 1339 probabilmente per porre fine al contrasto
sulla corrispondenza tra diritti e doveri feudali. Nell'intesa
si stabilisce il rituale del vassallaggio. Il Castellonese deve
la genuflessione, il bacio della mano; l'abate garantisce il suddito
con l'osculum sulla bocca. Ogni alienazione di beni avveniva soltanto
"consensu expresso et licentia Abbatis".
Buoni permangono i rapporti con re Roberto, che risponde favorevolmente
alla supplica rivoltagli nel 1312 da fra Giacomo, abate del Castellone.
La fedeltà ai reali costa al monastero ed al Castellone:
su di essi si scaglia la violenza di Nicolò Caetani, conte
di Fondi, per punirli dell'alleanza con la regina Giovanna I,
contro la quale aveva mosso guerra tra il 1346 ed il 1347.
Il periodo non é tra i più facili. Appena nel 1341
s'era conclusa la lunga e perniciosa diatriba per l'elezione del
nuovo abate.
Suppliche, contestazioni, appelli dei pretendenti giungono sino
ad Avignone presso la sede papale per ottenere la conferma papale.
La spunta Giovanni di Gregorio Botulante: sotto il suo abbaziato
comincia un lungo periodo di stabilità (1341-1369).
Rinnova le enfiteusi già concesse in passato per attrarre
al monastero i contadini onde assicurare certezza di entrate.
Favorisce la costruzione di nuovi montani ed organizza un adeguato
sistema di molini ad acqua a Mola per ammodernare la rete di trasformazione
dei prodotti agricoli.
Sotto l'episcopato di Ruggieri Frezza da Ravello le vendite e
la commutazione dei beni portano il consenso congiunto del vescovo
e dell'abate.
Nel 1377 i Caetani ristrutturano le difese del Castellone e pongono
mano alla viabilità interna, edificando una torre ottagona
e torrioni.
L'abate Giovanni nel 1383 viene nominato Collettore delle diocesi
vicine dalla Curia romana al fine di frenare le pretese dei "fautori
dell'antipapa Clemente VII".
Il tempo guasta i rapporti con gli abitanti del Castellone, oramai
possesso dei Caetani, ed affiorano contrasti tra i monaci del
cenobio di S. Erasmo. Un infelice episodio spinge papa Martino
V ad imporre all'arciprete della Cattedrale di Gaeta la risoluzione
della delicata vicenda del priorato della chiesa di S. Nicolò
di Spigno, attribuito ad un religioso spacciatosi per monaco del
monastero castellonese.
La bolla pontificia rimette in discussione le nomine degli abati
con severità e ristabilisce la situazione quo ante.
A Castellone ritorna così il vecchio abate per riportare
un po' d'ordine tra i monaci.
L'esosità dei vincoli trascina la popolazione a continue
rivalse e la risposta dei Benedettini non si fa attendere.
Scende in campo la regina Giovanna II, che, memore dell'aiuto
concesso alla sua ava Giovanna I, fa sì che l'abate Giovanni
Gattola entri nel pieno possesso dei diritti usurpati dai Castellonesi.
La lite, però, ha un seguito. L'anno seguente, infatti,
di fronte al regio consigliere Goffredo di Gaeta, a ciò
espressamente delegato, compaiono i contendenti. Non é
dato conoscere l'esito della contesa.
Sono gli anni del censimento ordinato da Alfonso d'Aragona: nel
1459 la popolazione del Castellone ascende a 117 fuochi, vale
a dire a circa 585 abitanti, comunque numero al di sotto della
realtà considerando il valore fiscale dell'indagine.
L'abate Giovanni Gattola é promosso vescovo di Venafro
l'anno 1468 e l'abbazia viene affidata in commenda.
Quattro anni dopo la commenda passa nelle mani del cardinal Giuliano
della Rovere, nipote di Sisto IV, e futuro papa con il nome di
Giulio II.
Il papa Sisto IV aveva accordato nel 1474 un privilegio.
L'interesse per l'abbazia formiana da parte della Congregazione
di Monte Oliveto e l'offerta di una pensione annua di 334 ducati
d'oro spingono il cardinale commendatario, vescovo d'Ostia e titolare
di S. Pietro in Vincoli, a cedere la badia alla Congregazione
olivetana nel 1490.
Papa Innocenzo VIII acconsente con propria bolla; e ugualmente
il re Ferdinando con l'interessamento del figlio Alfonso II, duca
di Calabria, stila il diploma reale di assenso. E' il 12 dicembre
1491.
Formia.
Via A. Rubino: stemma della Congregazione olivetana.
Gli Olivetani prendono possesso materiale l'anno successivo; nel
gennaio del 1493 eleggono il loro primo abate: fra Tommaso di
Brabanza.
Se le consegne avvengono pacificamente, non altrettanto la presa
di possesso dei beni dipendenti dal cenobio di S. Erasmo si compie
serenamente.
Sono i sintomi di quegli interminabili conflitti tra Castellonesi,
orgogliosi e pronti a svincolarsi dagli obblighi secolari, ed
il nuovo Ordine assai contemplativo, restio ad intrecciare un
dialogo con la nuova emergente borghesia.Nel 1497 non trovandosi
modo di convincere gli abitanti a segnalare e restituire terre,
beni e documenti del monastero, i monaci si appellano al papa;
ed Alessandro VI interviene con una bolla di scomunica per gli
inadempienti.
Gli effetti sono immediati: molti si piegheranno e a chi resiste
vengono comminate pene severissime.
Persino al Capitano ed ai Giudici di Gaeta con lettere inibitoriali
del delegato di Giulio II (l'ultimo abate commendatario del cenobio)
si intima di non molestare più né l'abate né
i monaci castellonesi.
Il rispetto per gli Olivetani coinvolge la contessa di Fondi Isabella
Colonna, che esenta i religiosi, i loro inservienti e gli animali
da soma dal pagamento della scafa per il traghettamento del Garigliano.
I rapporti con il grande cenobio di Monte Oliveto in Napoli sono
intensissimi.
La festività del patrono s. Erasmo passa dalle consuete
due giornate a quattro.
I buoni contatti con la casata fondana danno ulteriore forza e
prestigio agli Olivetani: la contessa Giulia Gonzaga-Colonna invita
capitani, giudici e funzionari pubblici ad un particolare rispetto
per "l'abito olivetano ".
La Terra del Castellone passa in feudo dal 1497 a Prospero Colonna
per concessione del re Federico; dal 1503 é incorporata
da Ferdinando il Cattolico alla città di Gaeta.
In questi primi decenni gli Olivetani si preoccupano di rendere
più abitabile il monastero, predisponendo un ingresso idoneo,
sul nartece del quale, poi, appongono la data dell'adeguamento:
il 1508.
I Turchi si presentano al largo del Golfo, sbarcano giungendo
sotto Castellone nel 1532 e assaltano abbazia e chiesa. Il rogo
si estende a tutti gli edifici e distrugge molti documenti: quando
il Lancellotti risiederà meno di un secolo dopo nel monastero
al fine di trovare materiale per redigere le sue Historiae, annoterà
con amarezza che pochi manoscritti erano stati salvati dal fuoco.
L'abate perugino informa che il cenobio era stato rifatto con
ingente spesa ad opera di Teofilo d'Aversa e Placido dell'Aquila
e completato nel 1560.
La ricostruzione viene preceduta dall'interessamento di Carlo
V, che il 17 giugno 1538 prende tutto il complesso cenobitico
sotto la sua protezione.
Primo risultato é il riattamento della cappella di S. Probo
addossata su parte del fianco della chiesa di S. Erasmo. A conclusione
si pone sul portale d'ingresso principale la dicitura " A.D.1539
".
Il XVII secolo trascorre in interminabili diatribe tra gli Olivetani
ed il vescovo di Gaeta per le giurisdizioni sulle cappelle del
Castellone.
In verità i contrasti affondano nel precedente secolo.
Già nel 1560 il cappellano e l'ordinario sono deprivati
del diritti di possesso della chiesa parrocchiale del Castellone
dedicata a S. Maria del Forno.
Nel 1571 è la volta dei detentori dei beni del monastero
a dover rendere le terziarie all'abate.
Ed ancora si trascina dinnanzi ai giudici ecclesiastici la controversia
sul diritto di giurisdizione spirituale sulla Terra e chiesa del
Castellone con tanto di raccolta di un dossier colmo di testimonianze.
Papa Clemente VIII con breve decreta nel 1599 l'erezione della
chiesa di S. Erasmo a parrocchiale ed il provvedimento, lungi
dal risolvere il problema, innesca ulteriori questioni.
Tra il 1601 ed il 1606 vien fuori il dissidio per la tenuta nella
ex parrocchiale di S. Maria del Forno del Santissimo Sacramento
per i moribondi.
Il contrasto con l'ordinario diocesano diviene più appariscente
allorquando i monaci passano alla vie di fatto, non bastando il
giudizio pendente dinnanzi alla Sacra Congregazione dei Cardinali
per l'interpretazione del S.C.T.
L'abbazia continua a godere dell'esenzione dal pagamento della
scafa del Garigliano per volere della principessa degli Stigliano,
famiglia che avrà in feudo Castellone nel 1608 per intervento
di Filippo il Pio.
Ancora conflitti perniciosi si profilano all'orizzonte: il riconoscimento
dei mancati pagamenti per le terziarie sulle carrube, la questione
della competenza per l'approvazione della provvista di cappellano
per la distribuzione dei sacramenti in Castellone, stante la chiusura
notturna della porta di accesso alla Terra, il monitorio perché
il vescovo di Gaeta si astenga dal pretendere diritti sul monastero,
il dissidio con i preti di S. Maria del Carmine, eretta pochi
decenni prima con il concorso dei Castellonesi, sui quindenni
maturati.
I monaci mal sopportano le ingerenze nella loro vita comunitaria
e si mostrano impermeabili alle trasformazioni della società
castellonese. La vicinanza con un rione dai traffici intensi disturba
la vocazione originaria degli Olivetani. La contemplazione, dono
preziosissimo custodito gelosamente, li rende naturalmente distaccati.
Si scolpisce sul nartece dell'ingresso alla clausura l'anatema
per chi la viola: è il 1621.
Pur con l'impegno del recupero dei pagamenti, le entrate si contraggono
ed allora vengono difesi gli introiti e i possedimenti certi.
In questo modo si spiega la vigilanza sulla panizzazione: i forni
sono di proprietà dei monaci e chiunque tenti di costruirne
uno privato viene raggiunto immediatamente dall'ordine esecutivo
di abbattimento.
Nonostante le comprensibili lagnanze, nell'elenco dei monasteri,
stilato per dar seguito alla soppressione dei piccoli cenobi voluta
da papa Innocenzo X nel 1652, il monastero di S. Erasmo si colloca
tra quelli di media grandezza sia per consistenza economica sia
per numero di monaci.
Tra la vecchia prefissione del 1625 e la nuova del 1652 il numero
dei religiosi a Castellone rimane inalterato: dieci monaci, così
suddivisi rispetto al passato: otto sacerdoti e due laici.
A rendere il panorama economico più problematico contribuiscono
le perdite causate "dalla moltitudine de Popoli armati nelle
revolutioni popolari del Regno di Napoli " con chiara allusione
ai moti di Masaniello.
Le altalenanti vicende degli Olivetani, non sempre felici nell'adottare
misure comprensibili, nel gestire i rapporti con la popolazione,
tuttavia non impediscono di migliorare il tempio e di provvedere
gli altari di pregevoli dipinti, alcuni dei quali è possibile
ammirare nelle navate dell'odierna chiesa. Mancando in quel tempo
una cultura del documento e del reperto storico-archeologico e
per le immediate esigenze del culto e delle sepolture a camera,
si dava inizio alla ristrutturazione dell'area sottostante la
chiesa, compromettendo l'integrità delle murature sovrappostesi
nei secoli.
Si sposta, poi, la fiera della festa di s. Erasmo lontano dall'atrio
del monastero con nuovi motivi di lagnanza.
Il cenobio si presenta ospitale per i pellegrini e le personalità
che volentieri vi soggiornano, tra cui spicca nel 1422 l'ospitalità
concessa al re Alfonso I d'Aragona, così come asserisce
il Giovio.
Nel lontano 1232 si era fermato Bartolomeo di S. Germano, cappellano
papale, inviato a Gaeta per dirimere la lite scoppiata tra l'imperatore
Federico II ed i Gaetani.
Il 3 maggio 1727 qui sosterà e riposerà papa Benedetto
XIII, prima di ripartire.
Il pontefice Clemente XII conosce il cenobio formiano e con breve
del 1737 concede una speciale indulgenza plenaria ai visitatori
della chiesa.
Ma il declino dell'antico e potente monastero é oramai
nella logica degli eventi.
Il 26 marzo 1777 i monaci commissionano al regio agrimensore Andrea
Capobianco la misurazione delle distanze tra il monastero, la
chiesa del Carmine e l'abitato di Castellone, misurazione da produrre
nella causa contro i preti del Carmine a proposito della frequenza
alla messa della parrocchia.
In passato per frenare le pretese dei procuratori della chiesa
del Carmine, spalleggiati da parte della popolazione castellonese,
che si lamentava dell'impraticabilità della strada per
giungere al cenobio, i religiosi avevano aperto una porta alla
platea dell'Olmo per facilitare l'ingresso nel giardino del monastero
e di lì raggiungere la chiesa per il precetto dell'Epifania.
L'abate richiede alla Santa Sede uno sgravio fiscale per la penuria
delle entrate di molto ridotte.
Pochi decenni dopo, l'invasione francese spoglierà gli
Olivetani di ogni diritto ed il monastero subirà la soppressione
per le leggi eversive.
L'Archivio
storico della chiesa di S. Erasmo di Formia.
Durante
la campagna di scavi archeologici degli anni '70 furono salvati
numerosi manoscritti che giacevano in casse nell'assoluto abbandono.
L'intelligente opera di salvataggio, archiviazione e catalogo
del p. G. Pascoli, redentorista, archivista paleografo, ha consentito
la fruibilità di un patrimonio preziosissimo per la storia
della chiesa e dell'intera città di Formia.
I documenti cartacei rappresentano per numero e antichità
il fondo archivistico più consistente della città,
materiale unico per ricostruire alcune vicende storiche formiane
tra XVI e XIX secolo.
Il patrimonio archivistico è integrato dalle pubblicazioni
dei corpi documentari che contengano documenti relativi alla chiesa
di S. Erasmo (Codex Diplomaticus Cajetanus e altri corpi collettanei)
e dalle riproduzioni di manoscritti sul cenobio da fondi archivistici
italiani pubblici e privati, civili ed ecclesiastici.
Dopo un primo periodo, durante il quale uno studioso aveva smembrato
i fondi originari per consentire una maggiore leggibilità
secondo criteri ormai abbondantemente superati dalla scienza archivistica,
a metà degli anni '80 i manoscritti diventano oggetto di
studio sistematico. L'équipe di studi storico-archivistico-archeologici
a partire dal 1990 ha provveduto alla sistemazione dell'archivio
in un locale idoneo con adeguata attrezzatura per la conservazione
e consultazione da parte degli studiosi, il cui accesso è
consentito su appuntamento.
L'Archivio storico della chiesa di S. Erasmo contiene la serie
dei libri parrocchiali dal 1600 ad oggi, con brevi interruzioni,
tra le più antiche della diocesi di Gaeta. Inoltre sono
custodite alcune migliaia di carte.
I manoscritti sono classificati e custoditi in apposite cartelle;
riguardano: atti notarili di varia entità e natura (enfiteusi,
donazioni, permute, testamenti, costituzioni di censi, dotari),
lettere, corrispondenza degli abati, riscossioni di varia natura,
brevi pontifici, atti processuali.
Il manoscritto più antico risale al 1534, due anni dopo
la distruzione del cenobio e del Castellone ad opera dei Turchi,
durante la quale, a detta del Lancellotti, andarono perse le carte
più antiche.
Nell'archivio si hanno notizie sulla chiesa di S. Erasmo ed il
suo monastero, le chiese ad essa soggette per giurisdizione, la
chiesa del Carmine, le relazioni con altri cenobi. Vi si trovano
atti civili concernenti le località di Castellone, Mola
e Gaeta.
Ancora è possibile rintracciare informazioni sul vasto
comprensorio esteso da Fondi a Sessa Aurunca e, lungo la fascia
montana il versante inferiore del Cassinate.
È stata curata la pubblicazione della Rubrica delle Carte
appartenenti al Monastero di S. Erasmo di Castellone di Gaeta
(custodita nella Biblioteca comunale 'F. Testa' di Formia), un
regesto sotto forma di rubrica, compilata nel 1784 e contenente
i documenti dell'abbazia formiana redatti dal 1027 al 1764.
La
documentazione dell'Archivio storico.
Nel
1973 iniziava il recupero dei manoscritti e dei libri parrocchiali
della chiesa di S. Erasmo. Tutta la documentazione è posteriore
al Tridentino.
L'Archivio è ordinato come segue:
I- Registri parrocchiali;
II- Confraternite;
III- Fondi estranei (di varia provenienza);
IV- Biblioteca dell'Archivio.
L'ordinamento è stato curato dal p. G. Pascoli.
I registri parrocchiali iniziano con un miscellaneo B (1600-1621),
che fa presumere l'esistenza di miscellaneo A, andato perso già
nel secolo XIX. I miscellanei raccolgono atti di battesimi, matrimoni,
confermazioni, morti. Il miscellaneo A doveva riguardare i periodi
dall'approvazione dei decreti del Tridentino al 1599.
Nel 1599 la chiesa di S. Erasmo fu eretta parrocchia.
I registri sono suddivisi secondo le serie: battesimi, matrimoni,
morti, confermazioni, promesse matrimoniali, protocolli.
Sono altresì custoditi i registri delle confraternite e
associazioni laicali (deliberazioni, amministrazione, contabilità,
corrispondenza, pagamenti). Si ricordano la Confraternita della
SS.ma Vergine dei Suffragi, detta di S. Probo (fondata nel 1539
ed estintasi nel 1905) con propria cappella; la Pia Associazione
delle Figlie di Maria Addolorata (approvata dall'arcivescovo di
Gaeta mons. Contieri nel 1886); l'Azione Cattolica sezz. S. Luigi
e S. Agnese.
Tra i fondi, per complessivi 2.500 manoscritti, vanno segnalati:
a- Fondo del Carmine;
b- Fondo Cappelle (Sant'Erasmo, SS.mo Rosario);
c- Fondo Forcina (documentazione del parroco d. Antonio Forcina
+ 1968).
Purtroppo i fondi sono stati smembrati, per cui si è persa
la connotazione originaria e le carte sono state suddivise secondo
il criterio topico-cronologico. Dal 1990 si è preferito
mantenere quest'ordine, tipico di una visione archivistica settecentesca,
per evitare ulteriore confusione. Un modo per recuperare i corpi
originari è consistito nella creazione di apposite schede
con un sistema computerizzato.
Tra i documenti conservati figurano le seguenti tipologie: atti
notarili (costituzioni di censi, testamenti, dotari, permute,
fidejussioni), corrispondenza degli abati, atti processuali, lettere
contabili, ricevute di pagamenti, fedi, obbligazioni, tassazioni,
ratei, borderò d'ipoteca.
A parte si è creata una raccolta, ad uso degli studiosi
e per compensare le lacune dell'archivio, dei documenti della
chiesa e del cenobio dispersi per la penisola con le fotoriproduzioni
degli originali conservati negli archivi di Stato, negli archivi
delle abbazie, delle biblioteche.
Attualmente è in corso la pubblicazione della trascrizione
dei manoscritti del XVI secolo.
Per completare il settore documentario si è creata una
biblioteca dell'archivio con le pubblicazioni uscite nel comprensorio
di carattere storico, archivistico, archeologico.
Il
saggio di R. Frecentese sulla chiesa di S. Erasmo è tratto
da "Breve cronistoria della chiesa di S.Erasmo, già
cattedrale e chiesa abbaziale", in "I documenti dell'abbazia
di S. Erasmo a Formia. Rubrica delle Carte appartenenti al monastero
di S. Erasmo di Castellone di Gaeta (a cura di R. Frecentese)".
Caramanica, Marina di Minturno, 1993, pp. 15-39.
I
contributi sull'Archivio storico della chiesa di S. Erasmo di
A. P. De Santis (L'Archivio storico della chiesa di S. Erasmo
di Formia)
e
A. Onorato (La documentazione dell'Archivio storico) sono tratti
da "Guida storico-archeologica della chiesa di S. Erasmo",
a cura dell'Équipe di studi storico-archivistico-archeologici
- Formia. Caramanica, Marina di Minturno, 1995, pp.19-21.
|